«La guerra è una droga» dice il comandante Vlad mentre il cuoco prepara il rancio. «Ti dà assuefazione e poi non riesci più a smettere; spero che non ci attacchino mai qui, o che ci spostiamo prima che attacchino, perché se uno di questi ragazzi dovesse sentire il sapore del sangue potrebbe non tornare più indietro».

IL COMANDANTE VLAD è a capo di una compagnia nel nord del Donbass. Con i suoi cento uomini presidia le posizioni ucraine a circa 40 chilometri da Izyum, in una zona dove c’è un’intera brigata di stanza. «Sono bravi ragazzi, si danno da fare ma non hanno ancora imparato, non capiscono il senso di certi ordini». Sotto il comando di Vlad ci sono principalmente volontari dei battaglioni di difesa territoriale, uomini e ragazzi che si sono arruolati durante la prima settimana di guerra e poi sono stati addestrati per un mese prima di essere dislocati qui nell’est. Mentre gli altri scherzano tra di loro seduti a mangiare da delle ciotole di plastica lui è appoggiato con un gomito sul ginocchio e si fissa la mano sfregandosi lentamente le dita. Non dice nulla, pensa a qualcosa di talmente distante da sembrare assente. Oleksander “bocelli” nel frattempo parla ad alta voce e scherza con gli altri commilitoni e con noi. Viene dalla regione dei Carpazi come molti nella sua compagnia. Una delle prime frasi che gli avevo sentito dire dopo esserci presentati è «non vedo l’ora che vinciamo questa guerra per lasciarmi tutto ciò alle spalle, non voglio mai più parlarne, non voglio neanche pensarci, voglio cancellare questi giorni dalla mia mente». Parla di cibo, degli allevatori del suo paese, della sua famiglia, dell’ospitalità della sua gente e continua a ripetere che «il Donbass è brutto, non c’è neanche una montagna». Oleksander, dice, non sarà mai uno di quei veterani che si riuniscono e parlano per ore dei bei tempi sotto le armi, «non mi interessa, non è la mia vita, voglio solo che i russi ci lascino vivere come vogliamo; senza di loro».

MOLTE PERSONE in questa compagnia hanno un alto grado di istruzione, non assomigliano alla maggior parte dei volontari che si incontrano ai check-point. Con loro c’è Fedor, diventato famoso perché alcuni giornali americani l’avevano immortalato mentre faceva lezione ai propri studenti dalle trincee. Fedor si definisce un sociologo ma quando gli chiedo della cultura russa risponde che «è inutile parlare di qualcosa che ha già dimostrato la propria inconsistenza». Un altro professore, Dmitry, passa velocemente nel capanno adibito a mensa e ci viene indicato come uno degli intrattenitori della truppa. Di notte, quando le ore di attesa sono lunghe, Dmitry racconta degli aneddoti storici che tutti definiscono «molto interessanti» mentre lui si schernisce un po’ imbarazzato e arrossisce sotto la barba bionda.

PER QUANTO possa sembrare strano, l’impressione è sempre che più ci si avvicina al fronte e più l’umanità, in tutte le sue espressioni, sia manifesta. È come se venissero meno la maggior parte dei filtri che applichiamo quotidianamente in un contesto sociale ordinario. Tuttavia, mentre riflessioni di questo tipo sono estemporanee, le parole del comandante Vlad sono lapidarie. E se questi ragazzi venissero ammazzati domani? Se per qualsiasi motivo la routine che agognano di riconquistare fosse stata spezzata per sempre? Allora forse il demone della guerra tornerebbe a bussare e a trasformarsi in dipendenza, proprio come diceva l’unico militare del gruppo.

DURANTE LA PRIMA FASE del conflitto non era frequente trovare unità composte sia da militari di professione che da volontari. Questi ultimi venivano impiegati soprattutto per i posti di blocco, i presidi in città o le zone meno a rischio, come le città dell’ovest. «Un mese di addestramento è abbastanza per imparare le basi, poi il resto è pratica quotidiana» continua Vlad mentre ci spostiamo da una trincea all’altra. Una pratica fatta di turni di 36 ore in trincea, di allarmi antiaerei, di comunicazioni via radio in cui si avverte che l’artiglieria nemica ti ha preso di mira o che i droni di ricognizione russi sono in volo sopra le tue posizioni. Ognuno qui ha un soprannome e spesso i soldati vengono chiamati solo con quello. “Il turista” era una guida turistica, “bocelli” parla forte, “sica” dice che i suoi nonni erano corsi e che nell’isola quella parola vuol dire pugnale, “il marchese” solo per assonanza. Tra una postazione e l’altra le strade sono deserte ma capita sempre di incontrare un anziano in bicicletta che porta qualche provvista verso casa. L’impressione è sempre che non ci sia complicità né tantomeno simpatia tra molti dei civili rimasti in queste aree e i militari ucraini. «Qui non vi amano, vero?» chiedo a Vlad. Lui sospira e annuisce «la televisione russa gli fa il lavaggio del cervello». «Molti pensano che siete voi a bombardarli», insisto, «sì» risponde, «ma non ti dicono che l’unico ospedale che c’è nel raggio di 50 chilometri l’abbiamo allestito noi, è un ospedale militare quindi potrebbe benissimo occuparsi solo dei soldati, invece noi diamo assistenza a tutti e gli stessi che si lamentano di noi poi però vengono a cercare l’ufficiale medico per farsi aiutare».

«MA NON AVETE PAURA di essere il prossimo obiettivo dell’esercito russo da nord?» gli chiedo alla fine. «Potrebbe essere, ma sono quasi tre mesi che sento che i russi stanno per arrivare a Kramatorsk, ogni volta sembra imminente. La realtà, però, è che da Kiev si sono ritirati, da Kharkiv si sono ritirati e noi siamo ancora qui; forse i russi sono più bravi a fare annunci che a fare la guerra» risponde Vlad ridendo con quella sua risata interrotta che parte da un piccolo sbuffo delle guance e poi si ferma sulle labbra scoprendo appena i denti.
Eppure, Izyum è stata indicata dalla maggior parte degli analisti internazionali come la nuova direttrice dell’avanzata russa verso l’oblast di Donetsk, soprattutto ora che il Cremlino sta riposizionando le truppe che erano impegnate nei villaggi introno a Kharkiv per chiudere, sembra, il Donbass in una morsa. Le linee nemiche sono a 15 chilometri e nelle ore che passiamo con i militari i boati non cessano mai per più di dieci minuti. «Aspettiamo» dice Vlad, racchiudendo in questa sola parola tutto il fatalismo di una guerra che ormai sembra sfuggire a ogni previsione.