Quando, all’inizio degli anni ’80 di ritorno dal Giappone, Goffredo Parise diede alle stampe il suo diario in forma di romanzo, L’eleganza è frigida (Adelphi, 2008), fissò attraverso il proprio alter ego narrativo alcune delle caratteristiche di quella cultura che tanto amava e che con altrettanta passione giudicava per molti versi a rischio. «Marco – scriveva l’autore vicentino – era preso da febbrile interesse per il Paese dove si trovava come da un gioco di spie in cui, per capire i messaggi, occorreva l’uso dell’inchiostro simpatico. Infatti ogni giorno di più il Giappone gli pareva diviso in due, come appunto le spie che hanno sempre due facce. Una era la colossale maschera occidentale, con i suoi edifici e quasi tutti i suoi prodotti di moda e di consumo, l’altra faccia, niente affatto colossale e spettacolare, anzi fragile e sottile come carta dipinta, era il Giappone vero. I due volti non si mostravano mai insieme».

LE PAROLE DI PARISE che evocano uno dei temi ricorrenti nell’analisi della moderna cultura giapponese, si prestano anche ad essere utilizzate per un esame dell’ampia produzione narrativa ispirata al romanzo poliziesco che ha visto emergere il grande Paese asiatico a livello internazionale. Perché non solo le vendite del «settore» sono in costante crescita a Tokyo, ma dopo «l’onda scandinava» sembra essere questa una delle nuove frontiere della geopolitica del noir globale. Solo che in misura ancora più netta rispetto ad altre realtà, nel caso del Giappone si ha l’impressione di trovarsi spesso a che fare con almeno due fondamentali linee di ispirazione e modelli narrativi che muovono dalle tradizioni locali come dalle forme della letteratura poliziesca consolidatesi nel tempo in Europa e negli Stati Uniti. Intanto, a pesare, è prima di tutto la Storia. Nel senso che i racconti di detective, misteri e omicidi da risolvere fanno la loro comparsa nel Paese durante l’Era Meiji, anche definita come «periodo del regno illuminato» che va dagli ultimi decenni dell’800 ai primi dello scorso secolo: epoca durante la quale si assiste sia ad una modernizzazione della società giapponese che ad una sua apertura verso l’esterno.

Protagonisti indiscussi di questa fase sono Kido Okamoto (1872-1939) e Taro Hirai (1894-1965) due scrittori che si ispirano più o meno apertamente ai loro contemporanei occidentali. Taro Hirai adotterà perfino lo pseudonimo di Edogawa Ranpo, con il quale è conosciuto in patria e all’estero, la cui pronuncia in giapponese evoca il nome di Edgar Allan Poe. Entrambi questi autori guardavano ovviamente anche all’opera di Sir Arthur Conan Doyle e al suo Sherlock Holmes, intrecciando spesso alle indagini dei detective da loro creati sul modello di Holmes – rispettivamente Kogoro Akechi per Taro Hirai e Hanshichi Torimonocho per Kido Okamoto -, un interesse per le storie di fantasmi e per il soprannaturale che fa riemergere le tradizioni giapponesi nello specchio del fascino occidentale per lo spiritismo e i temi dell’occulto. Spesso, come emerge da uno dei capolavori firmati da Edogawa Ranpo, La belva nell’ombra (Marsilio, 2002), dove ad improvvisarsi detective è lo scrittore Samukawa, i toni oscuri, morbosi, l’incertezza riguardo la percezione del mondo circostante finiscono per nascondere anche semplici incarnazioni del male legate a sentimenti oltremodo umani e tutt’altro che riferibili ad altri piani della percezione.

A QUESTI ELEMENTI, Kido Okamoto aggiunge un’ambientazione prevalentemente legata al Periodo Edo della storia giapponese (1603-1868) e, spesso, alle vicende dei samurai. La classica detective story, che ha in questo caso come sfondo l’antica città di Edo, la Tokyo feudale dello shogunato Tokugawa, si combina con elementi che fanno pensare al mystery. Come ben illustrato da I racconti del vecchio Miura, recentemente pubblicati nella bella collana Arcipelago Giappone di Luni Editrice (traduzione e cura di Corrado Cucchi, pp. 246, euro 24), dove il resoconto delle indagini si combina con l’avventura, la suspense, la paura e il soprannaturale. Complessivamente, e ciò può valere per l’intera opera di Kido Okamoto, i modelli europei della letteratura poliziesca sono declinati dall’autore «in uno spazio geografico e temporale altro», tanto da risultare in qualche modo del tutto inediti per il lettore. E lo stesso si potrebbe dire per i racconti ispirati ai «crimini della camera chiusa», inaugurati da Allan Poe nel 1841 con I delitti della Rue Morgue e poi perfezionati tra gli altri da Agatha Christie, cui avrebbero attinto a loro modo anche Okamoto e Ranpo, all’origine fin dagli Venti del 900 di un fenomeno letterario che non avrebbe più smesso di alimentare l’industria culturale giapponese. E malgrado l’ombra dei «padri» del noir giapponese continui a proiettarsi ancora oggi su una parte della produzione narrativa, linguaggi e stili espressivi non hanno fatto che moltiplicarsi e differenziarsi.

COSÌ È STATO ad esempio già Edogawa Ranpo ad introdurre nei suoi romanzi gli elementi architettonici come parte dell’intrigo criminale, caratteristica poi ripresa prima da Seishi Yokomizo, creatore, tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni ’70, del personaggio del detective privato Kosuke Kindaichi (un adorabile antieroe le cui indagini sono edite da Sellerio), e quindi, negli anni ’80 da Soji Shimada, autore de Gli omicidi dello zodiaco (Giunti, 1981), che hanno inserito nelle loro trame mappe, diagrammi, documenti sugli immobili nello sforzo di definire un’«attitudine al design» della violenza più brutale.

LONTANO DA UNA CONCEZIONE estetica del crimine, e maggiormente attento agli aspetti e alle contraddizioni sociali che la narrativa poliziesca può contribuire a rivelare, emerge la figura di Seicho Matsumoto, l’autore che in Europa è stato spesso definito come il «Simenon giapponese» che vanta al proprio attivo una vastissima produzione, oltre trecento romanzi pubblicati tra gli anni ’50 e gli anni ’80. In Tokyo Express, uno dei suoi titoli più noti, proposto in una nuova traduzione da Adelphi nel 2018, Matsumoto indaga l’anima stessa del Paese attraverso quello che appare a prima vista come il suicidio di una giovane coppia di amanti: in realtà a rivelarsi pagina dopo pagina, in una vicenda scandita ossessivamente dagli orari e i nomi dei treni, è l’incertezza di una realtà dominata da una volontà performativa che insegue l’eccellenza pur affogando sovente nella corruzione e nel disagio. «Aderire alla realtà di tutti i giorni, calare la struttura del giallo nel mondo reale, significa soprattutto adottare un punto di vista sulle cose e sugli uomini, proiettare attraverso la scrittura l’immagine di una società» si sottolinea, a proposito dell’opera di Matsumoto nella storia della Letteratura giapponese curata da Luisa Bienati (Einaudi, 2005).

Natsuo Kirino

Si tratta infatti di uno snodo decisivo che sembra rimandare ancora una volta al duplice volto del noir giapponese. Se Matsumoto inaugura una nuova stagione, che giunge fino ad oggi, figure come Masako Togawa e Natsuo Kirino sembrano portare alle estreme conseguenze questa immersione senza remore nei contrasti della realtà sociale del Paese. Considerata in patria alla stregua di un’icona gay e femminista, già cantante, attrice e proprietaria di un nightclub a Tokyo, la prima, scomparsa nel 2016 a 85 anni e di cui Marsilio ha già pubblicato Residenza per signore sole e, di recente, Diario di un seduttore (pp. 204, euro 17) si muove con agilità nel torbido ambiente della vita notturna della capitale, rivelando quanto sopraffazione e violenza possano celarsi sotto i cliché della seduzione. Quanto a Natsuo Kirino, pseudonimo di Mariko Hashioka, classe 1951, pur contando sul personaggio ricorrente dell’investigatrice Murano Miro, si tratta senza alcun dubbio della voce più innovativa del poliziesco locale. Nei suoi romanzi, pubblicati nel nostro Paese da Neri Pozza, si assiste ad una sorta di inversione di molti stereotipi legati sia all’immagine tradizionale del Giappone che ai codici di genere. In particolare le donne protagoniste di molte delle sue storie si sottraggono in modo salutare al ruolo di vittime predestinate per diventare protagoniste attive della violenza che intende prenderle di mira. Come nel caso di Le quattro casalinghe di Tokyo (Neri Pozza, 2003), tra i capolavori di Kirino, dove quattro amiche scoprono insieme «il fascino della rivolta e il business del crimine».

NATURALMENTE, a fronte dell’interesse crescente manifestato dai lettori giapponesi nei confronti del noir, a riprova si possono citare le incursioni nel poliziesco compiute via via da figure quali Jun’ichiro Tanizaki, Banana Yashimoto e Murakami Haruki, i confini del fenomeno hanno finito per coinvolgere diversi aspetti della realtà del Paese. Si parla così di una «narrativa Yakuza» che, come indicano le storie di Isaka Kotaro (tra le più recenti, Il sicario che non voleva uccidere, Einaudi, pp. 344, euro 18,50) raccontano, non senza una punta di sinistra ironia, il mondo del crimine dal punto di vista dei killer professionisti o degli affiliati della mafia locale, o di romanzi che giocano con il linguaggio dei manga o del noir cinematografico, in quest’ultimo caso giapponese come coreano. Opere come Tokyo Noir di Fuminori Nakamura (Mondadori, 2015), L’uomo che voleva uccidermi di Yoshida Shuichi (Feltrinelli, 2017) o Mosaico di Randy Taguchi (Fazi, 2008): tutte caratterizzate da un’attitudine spiazzante, interrogativa che mette in discussione ogni elemento considerato certo dell’orizzonte culturale giapponese. Del resto, non solo l’aspetto estetizzante dell’incertezza e della precarietà, resa per contrasto in forme apparentemente perfette, ma il portato complessivo di un sentimento d’inquietudine che sembra voler esorcizzare il cambiamento laddove ne elabora invece un codice narrativo, appare centrale nel modo in cui scrittrici e scrittori giapponesi guardano al proprio Paese e a se stessi. Come notava ancora una volta Goffredo Parise ricordando come uno dei suoi interlocutori considerasse «bellissima una giornata piovosa per ragioni esclusivamente estetiche, come moltissimi giapponesi che a una giornata di pieno sole preferiscono una giornata più sfumata e ambigua, sempre sul punto di tramutarsi in pioggia o sole, con vari e delicati passaggi di luce».