La disfatta era nell’aria e la notte fra il 4 e il 5 di luglio l’ha solo resa concreta: lo Scottish National Party (Snp), partito di governo, ha ottenuto solo 9 seggi nel parlamento di Westminster. A 5 si sono fermati i conservatori e i liberal-democratici, mentre i laburisti hanno stravinto anche in Scozia, ottenendo ben 37 dei 57 seggi a disposizione. Nessun seggio ai Verdi, partito in crescita in Scozia ma che stenta ancora ad affermarsi come forza con una visione politica più ampia e non limitata alle sole questioni ambientali.

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Nelle precedenti elezioni generali britanniche, in Scozia, lo Snp aveva ottenuto 48 seggi, i laburisti uno solo. La natura della legge elettorale britannica – basata su circoscrizioni che eleggono un solo candidato, ovvero chi ha ottenuto anche un solo voto in più – esaspera le dimensioni della sconfitta dei nazionalisti. Che però rimane tale.
I laburisti hanno vinto un po’ dovunque, soprattutto nella Central Belt, vale a dire le due maggiori città, Edimburgo e Glasgow, e le aree circostanti. I conservatori hanno resistito nei Borders, ovvero l’aria confinante con l’Inghilterra, loro roccaforte, mentre l’Snp ha tenuto nelle Highland e nel nord del Paese, aree storicamente più legate alle istanze indipendentiste. L’Snp ha vinto, ad esempio, nella zona di Aberdeen e rieletto Stephen Flynn, capogruppo dei nazionalisti scozzesi nel parlamento di Londra.

Ciononostante, quella del 4 luglio non è stata per Flynn una gran serata. Anzi, «una nottata nera per tutti noi», l’ha definita all’indomani. «Come partito, dobbiamo ora concentrarci su come riguadagnare terreno nei prossimi 18 mesi in vista delle elezioni parlamentari scozzesi». Sulla stessa linea anche l’ex premier Nicola Sturgeon: pur ammettendo la pesante sconfitta, Sturgeon ha detto che il suo partito è tutt’altro che «morto e sepolto» in vista delle prossime elezioni.

Ma Sturgeon ha anche parlato del futuro del governo Snp guidato da John Swinney, in carica da pochi mesi e la cui posizione già instabile è ora inevitabilmente ancora più precaria. Sturgeon ha dichiarato che il governo di Swinney andrà avanti come previsto. Ma se ciò poco sorprende, data l’appartenenza si Sturgeon e Swinney alla stessa corrente interna al Snp, più rassicurante è l’appoggio di Kate Forbes, rappresentate della ‘destra’ del partito e vice-premier di Swinney. Anche Forbes ha infatti ammesso sia la pesante sconfitta che la necessità di proseguire tanto con il governo attuale che con la causa indipendentista.

Che futuro, dunque, per l’indipendentismo scozzese? Dalle pagine del Guardian, il caporedattore della sezione ‘Scozia’ Severin Carrell scrive che l’elezione del 4 luglio ha dimostrato che per l’elettorato scozzese la causa indipendentista è certo ancora viva, ma ben lontana dall’essere una priorità. «Se per elettori ed elettrici l’indipendenza non ha più la priorità», scrive Carrell, «allora l’Snp non può che mettersi sulla difensiva: non può più presentarsi come partito radicale e rivoluzionario nel parlamento di Westminster».

Festeggiano intanto i laburisti. Douglas Alexander, laburista scozzese che era stato ministro nel governo di Tony Blair e Gordon Brown, e che era rimasto fuori dal parlamento di Londra nelle elezioni del 2019, si è ripreso il suo seggio e ha dichiarato di non ricordare «un’elezione in Scozia in cui si sia parlato meno di indipendenza» e che «il disastroso fallimento dello Scottish National Party negli ultimi 17 anni gli si è infine rivoltato contro». La neo-eletta parlamentare Joani Reid gli fa eco, sostenendo che «la gente fatica a pagare le bollette e si trova bloccata troppo spesso nelle liste d’attesa del sistema sanitario nazionale, si preoccupa del futuro dei loro figli, non pensa a questioni costituzionali». Resta tuttavia da vedere se e come i laburisti sapranno davvero rispondere a tali esigenze.