Sassaiole, autobus dati alle fiamme, tentativi – falliti – di autoimmolazione, multisala presidiati dalle forze dell’ordine circondati da folle che minacciano di appiccare fuoco a tutto, se le loro richieste non saranno esaudite. Tutto questo, per l’uscita di una pellicola bollywoodiana accusata di «offendere la sensibilità» dei rajput, blocco castale hindu molto diffuso nel nord del paese rappresentato anche da frange dell’ultrainduismo nazionalista.

Succede in India, paese che il primo ministro Narendra Modi aveva appena finito di dipingere in tinte tanto banali quanto ridondanti: la più grande democrazia del mondo, la patria del Mahatma Gandhi, un subcontinente passato dal motto nehruviano «Unity in diversity» al modiano «Progresso per tutti»; un paese dove gli investitori sono invitati per trovare, parole di Modi, «pace e prosperità».

Puntuale, una versione decisamente più realistica dell’India contemporanea ha sovrastato la retorica «latte e miele» del premier, mostrando l’enorme problema di una convivenza realmente pacifica e rispettosa all’insegna della multiculturalità. Stavolta, a spargersi a macchia d’olio in gran parte del paese, sono state le proteste identitarie da mesi incoraggiate dall’ala estremista del blocco rajput contro la proiezione di Padmaavat: polpettone melenso in costume diretto da Sanjay Leela Bhansali e interpretato da alcune tra le stelle più brillanti del firmamento di Bollywood, tutti minacciati di morte.

La vicenda, ambientata nel tredicesimo secolo, si sviluppa intorno all’assedio del forte rajput di Chittor, nell’attuale Rajasthan, da parte delle truppe musulmane guidate dal sultano di Delhi Alauddin Khilji (Ranveer Singh), deciso ad annettere il forte ai possedimenti imperiali, uccidere il re rajput Rawal Ratan Singh (Shahid Kapoor) e aggiudicarsi la regina, dalla bellezza leggendaria, Rani Padmavati (Deepika Padukone).

La pellicola, uscita nelle sale nella giornata di ieri dopo mesi di rinvii causa proteste ultrahindu, è tratta dal poema epico Padmavat, scritto nel sedicesimo secolo da Malik Muhammad Jayasi (musulmano sufi).
Indiscrezioni diffuse da quasi un anno indicavano che in Padmaavat fosse presente una scena in cui la regina Padmavati veniva sognata in atteggiamenti intimi dal sultano Khijli, scatenando l’ira degli eredi rajput contemporanei. Nel poema – e nel film – Padmavati finisce per immolarsi, pur di non cadere tra le grinfie del sultano e mantenere intatto l’orgoglio rajput.

La storia, interamente frutto della fantasia di Jayasi, per milioni di rajput mantiene il valore di «resoconto storico», tendenza profondamente radicata nell’approccio dell’ultrainduismo all’epica hindu. Per questo, per l’ultradestra, il film Padmaavat è colpevole di «travisare fatti storici», mettendo in cattiva luce l’integerrima regina e, di conseguenza, tutti i rajput.

Per questo motivo, da due giorni, proteste violente hanno infiammato buona parte dell’India centrale e settentrionale, sfogando per strada la rabbia indirizzata alle istituzioni, ree di aver permesso – grazie a una sentenza della Corte Suprema! – la distribuzione del film. Tra le decine di roghi e sassaiole si conta anche l’assalto di uno scuolabus pieno di bambini a Gurgaon, una sorta di «new city» adiacente New Delhi ma sotto la giurisdizione dello stato dell’Haryana.
Mentre nel paese infiamma la protesta e scattano decine di arresti tra i manifestanti, di fronte a cotanto esempio di «pace e prosperità», nessuno dei vertici ministeriali né del Bharatiya Janata Party (Bjp) di Narendra Modi ha condannato l’insubordinazione della folla ultrahindu.