Zangnan. Letteralmente, Tibet meridionale. È il nome con cui la Cina chiama l’Arunachal Pradesh, lo stato indiano rivendicato da Pechino come parte del proprio territorio. Proprio qui è stato nei giorni scorsi Narendra Modi. Il primo ministro indiano si è presentato nel remoto territorio himalayano per inaugurare un tunnel a due corsie, costruito a quattromila metri di altezza.

L’opera fornirà un nuovo collegamento e faciliterà il movimento di soldati e attrezzature militari. Piccolo particolare: si trova a poca distanza dall’enorme confine conteso tra India e Cina, 3500 chilometri lungo cui si snodano diversi punti di tensione. Modi ha annunciato altri progetti infrastrutturali e centrali elettriche.

SOLO POCHI giorni prima, il premier indiano era stato nel Kashmir per la prima volta dopo la cancellazione della sua autonomia nel 2019. Non così lontano dall’Aksai Chin, amministrata da Pechino ma rivendicata da Nuova Delhi. È qui che nel giugno 2020 sono esplosi gli scontri più violenti degli ultimi decenni tra i militari dei due paesi, con qualche decina di morti da entrambe le parti.

Basta questo per capire che non si parla di movimenti banali per Modi, ormai in piena modalità campagna elettorale in vista del voto di aprile. «Deploriamo fortemente e ci opponiamo fermamente alla visita del leader indiano – ha dichiarato Wang Wenbin, portavoce del ministero degli esteri – Le mosse dell’India non faranno che complicare la questione dei confini e sconvolgere la situazione nelle zone di frontiera».

Ma la necessità di mostrarsi forte nelle contese con la Cina per Modi non si ferma qui. Nuova Delhi ha previsto l’invio di un’unità di 10mila soldati sulla frontiera contesa tra il Tibet e gli stati indiani di Uttarakhand e Himachal Pradesh, dove tra l’altro risiede il Dalai Lama dalla sua fuga del 1950 dopo l’arrivo delle forze di Mao Zedong. L’unità sarà supportata da artiglieria e aviazione.

Si tratta di truppe precedentemente impiegate sui confini occidentali dell’India e che ora saranno chiamate a gestire gli altri 9mila soldati già dislocati in una regione che ospita alcuni dei santuari più sacri dell’induismo. Nel frattempo è stato annunciato il successo del primo test di volo di un missile balistico autoctono in grado di trasportare testate multiple. «Il programma missilistico dell’India minaccia la pace regionale ed è rivolto a un nemico immaginario», commentano i media cinesi.

DOPO i violenti scontri del 2020 le relazioni diplomatiche tra i due paesi sono peggiorate e i numerosi round negoziati non sono serviti a risolvere la situazione. In almeno altre tre occasioni si sono verificati confronti in diversi punti del confine, senza vittime ufficiali. Anche la Cina ha intensificato la propria presenza militare e infrastrutturale nei pressi della frontiera. Qualche mese fa, Pechino ha rinominato in mandarino alcune località sotto controllo indiano, poco prima del G20 di Nuova Delhi a cui Xi Jinping non si è presentato.

La vicenda è di difficile soluzione: i confini sono frutto di un vecchio accordo tra Tibet autonomo e India britannica. La danza dei due giganti asiatici sul confine conteso pare destinata a proseguire. E persino a sdoppiarsi, con un fronte a più bassa intensità sull’oceano Indiano. Proprio ieri, Nuova Delhi ha iniziato il ritiro dei soldati dalle Maldive, tradizionalmente nella sua sfera di influenza. Mossa imposta dal nuovo presidente dell’arcipelago, Mohamed Muizzu, che ha appena firmato un accordo di assistenza militare. Con chi? La Cina, ovviamente.