Emigrare richiede coraggio e ne richiede tantissimo. Nessun indice di integrazione sociale, nessun servizio sociale, nessun centro di accoglienza potranno fino in fondo capire quanta forza psichica richieda questa esperienza e quanto essa possa essere accompagnata da crisi, cadute, difficoltà, spesso silenziose.
Il libro Diritti e comunità. Clinica transculturale e società dell’inclusione, curato da Gustavo Gozzi per ombre Corte (pp. 180, euro 15), parla soprattutto di questo, dell’impegno psichico che la migrazione sollecita, all’interno di un mondo sociale e istituzionale, come ad esempio quello italiano, caratterizzato da meccanismi di esclusione e di assoggettamento delle persone immigrate.
Il libro è organizzato in quattro parti, attente ad approfondire i temi del rapporto tra multiculturalismo e cittadinanza, dell’integrazione, della mediazione interculturale e della relazione tra tutela dei diritti e intercultura.

LA CORNICE TEORICA generale del libro è coerente con il lavoro che svolge l’Associazione Diversa/mente, promotrice della pubblicazione. L’Associazione sostiene i processi di inclusione della popolazione immigrata, interrogandosi sui significati dell’inclusione, come scrive Susana Liberatore, e le politiche delle immigrazioni, su cui scrive Ali Tanveer, e lo fa anche attraverso la pratica clinica transculturale. Essa segue un approccio che tiene insieme struttura della personalità e ambiente culturale, secondo le indicazioni di Frantz Fanon e quelle più recenti della prospettiva del complementarismo, elaborata in particolare da George Devereux, tra i fondatori dell’etnopsichiatria.
Questo approccio è illustrato, con esempi pratici, nel capitolo centrale del libro dal titolo «Integrazione: visioni in transito e clinica transculturale» scritto da Patrizia Brunori, Filomena Cillo e Renata Alexandre Lins, nel quale si mostra quanto sia fondamentale l’osservazione, ispirata dalla ricerca di un’etica dell’incontro che non interpreti l’altro in maniera predeterminata, ma entri con lei (o lui) in comunicazione. Se non si segue questo metodo, l’esito probabile sarà la banalizzazione dell’altro, rischiando di ridurlo a malattia o a oggetto culturale indecifrabile.

LA COMUNICAZIONE con l’altro permette anche di accedere ai contesti strutturali di provenienza, perché la cultura non è mai estranea ai rapporti di potere, anche quando questi rapporti sono a prima vista invisibili, in quanto inscritti nell’organizzazione sociale. L’incontro richiede ascolto, definito nel capitolo «Phonè e sordita; diritti e afonia dell’altro», scritto da Alessandra Inglese, un antidoto contro l’assurdità. Come ha insegnato il sociologo colombiano Orlando Fals Borda, l’ascolto è un metodo conoscitivo fondamentale soprattutto delle popolazioni storicamente e strutturalmente sfruttate o marginalizzate e questo viene ben spiegato nei capitoli scritti dai mediatori culturali Arezki Hamidi e Nadia Hadjeb. Senza ascolto succede che, come spiega Erika Agresti nel capitolo «A misura d’uomo» con le parole di un genitore incontrato durante una ricerca condotta dall’Associazione Diversa/mente, «ti aiutano senza capire quello che vuoi tu».
Questo rischio interroga tutti i servizi sociali, le loro derive burocratiche, ma anche i loro saperi e la volontà di superare i propri limiti e mettersi in discussione. L’incontro con le persone immigrate richiede questa interrogazione: spesso, i servizi e le persone che vi lavorano non sono pronti a questo cambiamento, in quanto «il funzionamento delle istituzioni ha una naturale tendenza all’irrigidimento e corre il rischio di perdere di vista il bisogno della persona a favore di quello del controllo e della normalizzazione».

E, ALLORA, come si può fare? Rispetto e ascolto dell’altro e riconoscimento della sua possibilità di scelta sono alla base di una necessaria alternativa. Questo orientamento dovrebbe caratterizzare l’azione di tutti i servizi che si rivolgono alle persone e, ovviamente, la pratica clinica, la quale richiede non solo setting adeguati, ma anche approcci coerenti, che vogliono davvero riconoscere le persone incontrate. Esso vale anche nel caso della tutela dei diritti in ambito giudiziario, nel quale gli aspetti transculturali sono fondamentali, come scrivono Danila Indirli, Carmela Italiano e Nazzarena Zorzella, e lo sono ancora di più nel caso della tutela dei minori, i cui genitori non devono mai essere penalizzati da psicologismi astratti o dalla povertà.