La visita in Cina della segretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen è un ulteriore sintomo di come le leadership di Cina e Usa stiano provando a parlarsi, scansando i rispettivi falchi che chiedono invece un atteggiamento reciproco più duro.

All’inizio del suo mandato Yellen era parsa piuttosto severa con Pechino; nel tempo si è fatta più morbida e ora in Cina, lo si evince dai commenti sui media nazionali, è considerata invece una specie di «amica» della Repubblica popolare, perché ha detto quanto nel Paese si ripete da tempo: che il decoupling – cioè il disaccoppiamento delle due economie – sarebbe un danno per tutti e che Cina e Stati uniti sono due partner economici la cui relazione deve essere stabile.

Se così non fosse ad andare a picco non sarebbero solo i due paesi ma il mondo intero. Negli Usa hanno anche ricordato la quota del debito pubblico americano nelle mani dei cinesi, considerata da tempo la killer application che Pechino potrebbe giocarsi come carta finale nella sfida commerciale con Washigton.

La visita di Yellen arriva dopo un periodo tumultuoso che ha visto decisioni piuttosto drastiche da parte dei due paesi, come a dire che sotto traccia al dialogo persiste un problema irrisolvibile che potrebbe essere riassunto così: gli Stati uniti non possono permettersi di condividere il proprio primato tecnologico con la Cina. Non possono per diversi motivi, economici ma non solo.

La guerra in Ucraina ha dimostrato che la tecnologia americana è ancora in grado di fare la differenza in un confronto militare e a Washington sanno che questo “primato” potrebbe essere messo a rischio dalla Cina, il cui sviluppo militare va di pari passo con quello dell’Intelligenza artificiale, dei super computer quantistici, dei satelliti.

Vero è che la Cina da un punto di vista militare si considera ancora indietro agli Stati uniti, ma è vero anche che i passi avanti compiuti da Pechino negli ultimi decenni sono stati impetuosi. E poi c’è l’aspetto legato agli immaginari: Tik Tok ha dimostrato che l’innovazione e il successo arrivano da oriente e non solo più e soltanto dal nostro mondo.

Questa sfida tecnologica, che oggi si gioca su un campo inclinato fatto di minacce di divieti e di divieti effettivi (come ad esempio la recente decisione di Biden di provare a escludere la Cina dall’accesso al cloud computing dei Big americani) è irrisolvibile: è impossibile che Usa e Cina trovino un compromesso, perché la sfida ha a che fare con i pilastri della postura internazionale dei due paesi.

Stupiscono piuttosto – e come spesso accade per la Cina – certe mosse cinesi recenti, come ad esempio quella dei controlli alle esportazioni di alcuni materiali critici come il gallio e il germanio, fondamentali per la creazione dei microchip.

Tema sul quale si dibatte da tempo e che in realtà rappresenta solo una minima parte di una sfida molto più vasta, epocale, che tira dentro Big Data, la sicurezza nazionale, e il progredire di tecnologie in grado, fra le altre cose, di mettere in difficoltà gli attuali sistemi crittografici.

Nel 2016 ad esempio, tutti i quotidiani del mondo proposero molti articoli sul super computer cinese, il Sunway TaihuLight. Proprio quell’anno era diventato il numero uno della classifica internazionale dei computer ad alte prestazioni. Lo sarebbe rimasto fino al 2018 (secondo una ricerca pubblicata nel maggio del 2023 oggi sarebbe al quarto posto), ma in quel 2016 per tutto il mondo era uno shock, anzi un duplice shock.

Intanto scoprire che la Cina era in testa nella graduatoria dei super computer era una specie di novità clamorosa e inaspettata; in secondo luogo, a differenza della maggior parte degli altri computer superveloci cinesi, che utilizzavano processori progettati negli Stati uniti, il TaihuLight era stato costruito con un processore interamente «created and made in China». In altre parole, scriveva su Foreign Affairs Tom Mullaney, grande esperto di informatica in Cina, «le nuove classifiche hanno mostrato che l’industria informatica domestica della Cina ha avuto successo».

Tutto era nato nel 1986 dal “Progetto 863” voluto da Zhao Ziyang, allora segretario, ma di cui poi si è intestato il successo Deng, che proprio in quegli anni aveva ammonito: l’informatica deve essere insegnata ai bambini. Il risultato del 2016, quindi, non sorprese più di tanto la comunità scientifica.

Nel suo articolo Mullaney ricorda anche un episodio abbastanza divertente, a proposito di una delegazione che Severo Ornstein, un ingegnere impiegato in ricerche per le più prestigiose università statunitensi, portò in Cina negli anni ’70.

Ornstein non si riteneva abbastanza famoso per riuscire ad avere un invito da Pechino: cominciò così un recruiting con il quale mise insieme alcuni tra i più importanti scienziati americani dell’epoca. Ne chiamava uno, gli diceva che al viaggio avrebbero partecipato anche altri nomi famosissimi che in realtà doveva ancora contattare. Alla fine mise su un dream team che dopo qualche tempo ricevette finalmente un invito ufficiale dalla Cina.

Insieme a Ornstein c’erano Herbert Simon, premio Nobel e professore di informatica e psicologia alla Carnegie Mellon University, Alan Perlis, professore di informatica alla Yale University e primo destinatario del Turing Award e tutta un’altra serie di super scienziati.

Il 10 luglio 1972 la delegazione arriva a Guangzhou e qualche tempo dopo il team giunto in Cina pubblica su Science un articolo che ha questo sottotitolo: La tecnologia informatica avanza rapidamente in Cina senza aiuti esterni. Tra l’altro dai ricordi degli scienziati americani emerge il tentativo dei cinesi di sottolineare che la loro politica principale era quella dell’autosufficienza e del «mantenere lo sviluppo scientifico nelle nostre mani».

Siamo nel 1972: è interessante prima di tutto notare che questa corsa all’autosufficienza – tanto sottolineata oggi da Xi Jinping – non è una novità. In secondo luogo negli Usa ne erano perfettamente coscienti. Solo che siamo abituati a pensare che certe cose, l’innovazione ad esempio, siano un patrimonio occidentale, una lunga eredità dell’illuminismo. Non è così.