Il giudizio politico su Gentiloni, come quello su ogni altro leader, è sempre una questione di opinione. Da affidare cioè al regno del puramente relativo. Ma lascia perplessi la tendenza a rappresentarlo come la figura dell’indispensabile, il solo degno di incarnare la dignità delle istituzioni.

Tutto ciò sfugge dal regno volatile della doxa e si tramuta in un frettoloso attestato di autorevolezza di chi ha in dote assolute qualità da statista.

Che nozione di democrazia coltivano i ceti dirigenti italiani?

Il presidente del consiglio in carica ha assunto sotto la propria responsabilità di governo la decisione di imporre la legge elettorale vigente e lo ha fatto per giunta con l’imposizione alle aule di 8 voti di fiducia. Solo per chi della democrazia formale coltiva i retaggi di antiche vedute sostanzialistiche, che inducono a considerarla una pura procedura manipolabile a discrezione, può ritenere che sia indifferente, nella valutazione della condotta politica del capo di governo, la forzatura delle regole del gioco e la loro sottrazione al libero dibattito parlamentare.

Che un sequestro della democrazia formale sia diventato un inopinato titolo di merito, per allungare la carriera istituzionale del suo artefice, la dice lunga sul declino della cultura delle regole e del senso della costituzione. Ognuno percepisce che le prossime elezioni di marzo si svolgono in un surreale clima di democrazia assolutamente minore.

Si paventa sulla stampa il rischio di un errore materiale nell’espressione di voto che si abbatte come un catastrofico fenomeno di massa, indotto dalla irragionevole tecnica elettorale voluta a tutti i costi dal governo per escludere il voto disgiunto e congelare la sovranità del cittadino.

L’elezione, per colpa dell’esecutivo, perde ogni significato di vincolo fiduciario. Il voto a un candidato uninominale si trasferisce a quello delle liste collegate e il consenso a una lista bloccata si tramuta in schede da conteggiare per chi corre per aggiudicarsi il collegio. Un pasticcio: un laicista vota Bonino e magari elegge Fioroni.

Questo congegno di contabilità forzosa provoca delle assurdità e degli effetti indesiderati che annichiliscono il significato stesso del voto in una poliarchia moderna. Nessun legame sussiste più tra il cittadino e il deputato e il voto dato in un luogo si volatilizza in altre circoscrizioni sprigionando il suo effetto in una maniera del tutto imprevedibile.

Gentiloni ha disegnato un sistema politico retto con il meccanismo bizzarro del voto preterintenzionale, cioè ha inventato un autentico mostro giuridico, senza confronti in occidente, che elegge in maniera inconsapevole gli organi della rappresentanza. Le schede scatenano effetti non voluti, le urne si chiudono con esiti generali che cadono a casaccia. Sua maestà il caso: questo è il sistema politico costruito manu militare. Con la democrazia presa sul serio esso non mostra alcuna affinità.

Le prossime si annunciano come le peggiori consultazioni elettorali che si sono viste dal dopoguerra perché cadono nelle vicinanze del grado zero della qualità democratica della competizione. Liste bloccate e blindate, giochi di pluricandidature, voti rapiti da liste civetta che sono offerti in dote al partito maggiore, tutte opacità che segnano il trionfo di una rappresentanza senza soggetto e di un parlamento de-territorializzato.

La rappresentanza rimane sulla carta come un puro simulacro, ferita al cuore dalla tramutazione delle elezioni da momento di selezione-investitura della classe politica, in congegno passivo di approvazione delle liste stilate autoritativamente da capi in vista di docile obbedienza.

Che Napolitano o Prodi scambino l’artefice di una restrizione delle regole della rappresentanza democratica per una riserva della repubblica ha del sorprendente. Le loro celebrazioni di Gentiloni confermano però che la vicenda del centro sinistra tradizionale è storicamente esaurita e che la rottura che si è consumata con il Pd è stata semmai una mossa tardiva, non già un frutto dell’azzardo.