I risultati delle elezioni del 15 maggio arrivano in un momento estremamente delicato per il Libano. Il paese è una repubblica parlamentare unicamerale in cui il parlamento è eletto secondo una ratio confessionale: metà deve essere cristiana, l’altra musulmana, il presidente un cristiano maronita, il primo ministro un sunnita e il portavoce uno sciita. Il sistema è proporzionale e dovrebbe rappresentare equamente le comunità, ma l’ultimo censimento risale al 1932.

NELLE CIRCOSCRIZIONI è però possibile votare anche candidati di altre comunità religiose. Un sistema complesso dunque, cucito su misura dei gruppi di potere che tengono in ostaggio il paese e che è quindi difficile scalfire senza un cambio radicale della legge elettorale. I deputati sono 128 e la maggioranza è composta dalla metà più uno. L’affluenza al 41% si è ulteriormente ridotta rispetto al 56% del 2018.

In questo momento gli scrutini sono parziali, ma significativi, anche se già volano accuse di brogli. Il voto di protesta legato alla thaura, la rivolta del 17 ottobre 2019, si è disperso in tante piccole liste, nonostante qualche segnale importante ci sia stato.

Gli sciiti Amal e Hezbollah hanno mantenuto solida la loro base, ma escono indeboliti dal voto perché il loro maggiore alleato, il Movimento patriottico libero, partito cristiano del presidente della repubblica Aoun e di suo genero Bassil, ha perso parecchi voti in favore delle Forze libanesi, l’ultradestra cristiana all’opposizione che ha conquistato roccaforti aouniste come Kesrouan e che è ora il primo partito cristiano con almeno una ventina di seggi. Le Fl nascono come una costola del Kataeb, la falange, di dichiarata ispirazione fascista e franchista, durante la guerra civile.

Saad Hariri, capo del Movimento Futuro, sunnita, dopo aver annunciato qualche mese fa di non candidarsi, ha praticamente chiamato i suoi a boicottare la tornata. Si sono registrati scontri tra le fazioni fuori dai seggi, in prevalenza blocco sciita e Fl. Le elezioni mettono allora in discussione la maggioranza di governo.

E avere due blocchi estremamente polarizzati può innescare meccanismi ben noti, come quelli del 14 ottobre scorso quando sull’antico confine tra Beirut est e ovest è stata una vera e propria battaglia lampo tra affiliati alle Fl e Amal/Hezbollah.

È BENE RICORDARE la centralità del Libano sulla scena internazionale. La crisi diplomatica con l’Arabia Saudita e il Golfo è rientrata proprio alla vigilia delle elezioni con i sauditi che supportano le Fl e il blocco anti-Hezbollah per diminuirne l’influenza nella regione.

La situazione potrebbe provocare un ritardo nella formazione di un governo che non ci si può permettere: la crisi è ormai insostenibile e c’è estremo bisogno degli aiuti del Fondo monetario internazionale, che arriverebbero in cambio di riforme e stabilità. Come escludere tensioni sociali e tensioni?

OLTRE DUE ANNI di crisi economico-finanziaria, la più feroce della sua storia (un immane schema Ponzi per cui il capo della banca centrale Riad Salameh, assieme al fratello appena uscito di prigione previa cauzione, è sotto processo in Libano, Francia e Svizzera), un’inflazione altissima e incontrollata, svalutazione della moneta (2019, un dollaro valeva 1.507 lire libanesi, oggi circa 30mila al mercato nero, nonostante il tasso ufficiale sia immutato), aumento del tasso di povertà all’80% circa, la più massiccia diaspora dai tempi della guerra civile (1975-90), sono solo alcuni dei problemi in cui arranca il Libano oggi.

I prossimi giorni saranno fondamentali per capire in che direzione il martoriato Libano si dirigerà.