La prima volta che ha fumato una Cedars (nota marca di sigarette libanesi), Ahmad era in carcere, in una cella sovraffollata della prigione di Tripoli (città del nord del Libano ndr). Quattro giorni di sentenza nel 2021 «per la sola ragione di essere siriano,» dice e non avere i documenti in regola. Al terzo giorno, incapace di dormire, si è steso sul pavimento dei bagni comuni, e finalmente ha goduto di un po’ di spazio per sé, per il suo corpo magro. «Con i muscoli non rilassati per settantadue ore, in cella era impossibile chiudere occhio.» Venti persone in una stanza di pochi metri quadrati, accovacciati o in piedi, senza aria né luce ad eccezione della piccola, unica finestrella sbarrata sulla porta, da cui le guardie facevano passare i beni provvisti dai famigliari. Ma lui non aveva famiglia, non qui almeno. Nessuno che gli procurasse le sigarette che era solito fumare. «Capitava che un unico sandwich venisse passato dalla finestrella, ricevuto dalla cura di una madre, di una moglie o chessoio. E allora, senza sapere da chi fosse stato portato, a uno a uno ce lo si passava, un morso a testa. È la legge non scritta della cella, insieme al non fare domande.»

Sicché, da quel giorno, un morso a una crosta di pane piena di muffa, un tiro di fumo a una sigaretta offerta dal compagno – condivisa tra tutti i detenuti – Ahmad ha iniziato a fumare Cedars, a temere le autorità, ad evitare la strada di Qoubbeh, Tariq Al Jesh, dove il carcere di Tripoli – il più grande istituto penitenziario del nord del Libano – dovrebbe ospitare un massimo di 264 detenuti, ma ne accoglie almeno il triplo, con circa 700 uomini in detenzione amministrativa.

L’infrastruttura fisica del sistema carcerario libanese si è rivelata, per decenni, gravemente insufficiente e insoddisfacente. Dei 29 istituti di detenzione ufficiali del paese, solo due – le carceri di Roumieh e Zahle – sono stati espressamente progettati per fungere da strutture penali, ha rivelato una valutazione dei bisogni pubblicata nel 2022 dalla ONG ARCS. I restanti locali, originariamente destinati e precedentemente utilizzati come stazioni di polizia e magazzini, sono ubicati nei sotterranei delle caserme militari; all’interno degli uffici e dei centri di vari rami delle forze di sicurezza; e in serragli fatiscenti risalenti all’era ottomana.

In termini pratici, ciò significa che la stragrande maggioranza delle celle carcerarie sono attualmente prive di un’adeguata ventilazione e luce naturale, tanto meno di riscaldamento e aria condizionata. Inoltre, nel contesto di una devastante crisi economica che ha aggravato le già pessime condizioni all’interno delle carceri libanesi, dove il sovraffollamento e la mancanza di assistenza medica provocano regolarmente proteste, la dura realtà affrontata dai detenuti è diventata particolarmente acuta negli ultimi anni. Secondo un rapporto pubblicato da Amnesty International nel 2023, le carceri libanesi superano del 323% la capacità consentita e circa l’80% dei detenuti è in attesa di giudizio: numeri confermati da Human Rights Watch, secondo i cui dati – forniti dalle Forze di Sicurezza Interna del Paese – i centri di detenzione in tutto il Libano hanno una capacità totale di 4.760, ma detengono circa 8.502 persone, di cui solo 1.094, ad agosto 2023, erano state condannate. La combinazione di sovraffollamento e pessime condizioni di detenzione ha ulteriormente portato all’allarmante deterioramento della salute della popolazione carceraria, dove il rischio di fame è in rapido aumento.

Nel frattempo, alla luce del deprezzamento della valuta e dell’inflazione alle stelle, le risorse per la fornitura di assistenza sanitaria e generi alimentari sono drasticamente diminuite. La crisi alimentare delle carceri libanesi è infatti direttamente collegata al collasso economico del paese. Il governo è diventato incapace di saldare i debiti dei fornitori e degli appaltatori, che forniscono alle Forze di Sicurezza i generi alimentari da distribuire ai detenuti.

Lo scorso dicembre, sei delle aziende che forniscono cibo alle carceri libanesi hanno minacciato di tagliare le consegne entro la fine dell’anno a causa dei conti non pagati del governo negli ultimi tre anni. I fornitori – Dirani Group, Abdullah Group, Marcel Zakhia al-Duwaihy, Antoine Badawi Iskandar, Bernard al-Hayek Trading and Contracting e Hunida Elias Iskander – che distribuiscono cibo alle carceri di Roumieh, Zahle e Tripoli, e a quelle femminili di Baabda, hanno dichiarato di interrompere la fornitura di cibo a «diverse carceri libanesi entro il 31 dicembre 2023, poiché il periodo contrattuale con le autorità libanesi è terminato senza una nuova gara d’appalti e senza lo stanziamento dei fondi necessari per continuare il nostro lavoro,» si legge in una lettera inviata alla Direzione Generale delle Forze di Sicurezza Interna, in cui si denunciano i ritardi di pagamento dal 2020. Le società avevano già lanciato un altro ultimatum a marzo, inviando una simile lettera al ministro dell’Interno Bassam Mawlawi, e successivamente in agosto, avvertendo che avrebbero interrotto la fornitura di generi alimentari alle carceri del Libano se i sette mesi di pagamenti in sospeso non fossero stati saldati entro il primo settembre. Fondi che sono stati infine stanziati per pagare parte degli importi dovuti. Ma già più di due anni prima, nel marzo 2021, il Procuratore Generale del Libano, Ghassan Oueidat, aveva ordinato un’indagine a seguito delle notizie diffuse relative al rischio di fame nelle carceri del paese.

Allo stesso tempo, con l’aumento del sovraffollamento delle carceri e della conseguente domanda di cibo fornito, a causa dell’aumento generale del tasso di criminalità, della lentezza dei processi, della paralisi cronica del sistema giudiziario e dell’incapacità di molti detenuti che hanno scontato la pena di pagare le rette necessari per il loro rilascio – l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e la svalutazione della valuta libanese hanno reso più difficile pagare i fornitori alimentari a contratto, hanno confermato le Forze di Sicurezza Interna libanesi (ISF) a Human Rights Watch, come citato in un rapporto pubblicato dall’organizzazione ad agosto. Per rispondere, da allora, l’ISF, in collaborazione con i ministeri delle Finanze e dell’Interno, ha predisposto soluzioni patchwork che hanno garantito pagamenti mensili fino alla fine dell’anno. Tuttavia, le famiglie dei detenuti riferiscono che, anche con le consegne di cibo assicurate, il cibo rimane insufficiente e di così scarsa qualità da essere spesso inadatto al consumo.

A rischio fame

Un grave deterioramento dell’accesso al cibo per i detenuti è stato segnalato dai rapporti delle organizzazioni umanitarie fin dal 2019, poiché – nelle carceri in cui le autorità consentono alle famiglie dei detenuti di portare provviste dall’esterno – queste ultime, a causa dell’aggravarsi della crisi economica, non dispongono più dei mezzi sufficienti per acquistare cibo extra o coprire i costi spesso inaccessibili del trasporto. Pertanto, la distribuzione alimentare statale, nonostante fornisca cibo di qualità inferiore e solitamente in quantità insufficienti, è diventata il principale fornitore su cui fare affidamento.

«Prima della crisi, soltanto un numero molto ridotto di prigionieri dei quali le famiglie non chiedevano informazioni – non più del 25-30% della popolazione più povera – dipendeva dai pasti forniti dall’amministrazione carceraria,» ha dichiarato Mohamad Sablouh, direttore del Centro per i diritti dei prigionieri presso l’Ordine degli avvocati di Tripoli. «Oggi, quella percentuale ha superato il 90%».
Sablouh si occupa di documentare i casi e assistere le vittime di tortura, i detenuti arbitrari e i rifugiati siriani a rischio deportazione – subendo, a causa del suo lavoro, minacce e intimidazioni. Ha inoltre presentato diversi casi a livello nazionale ai sensi della Legge anti-tortura n. 65 del 2017, mentre, a livello internazionale, fornisce regolarmente alle organizzazioni non governative informazioni documentate, con l’obiettivo di presentare casi alle procedure speciali delle Nazioni Unite.

Teoricamente, secondo le norme internazionali, le Regole minime standard per il trattamento dei prigionieri delle Nazioni Unite – note anche come Nelson Mandela Rules -, «a ogni detenuto deve essere fornito dall’amministrazione penitenziaria, alle ore consuete, cibo di valore nutrizionale adeguato per la salute e la forza, di qualità sana e ben preparato e servito.» Le norme prevedono inoltre che l’acqua potabile debba essere a disposizione di ogni prigioniero ogni volta che ne ha bisogno, e che i detenuti dovrebbero avere accesso gratuito ai servizi sanitari necessari senza discriminazioni sulla base del loro status giuridico, mentre le autorità statali dovrebbero sforzarsi di ridurre il sovraffollamento carcerario e, dove possibile, ricorrere a misure non-detentive come alternative alla custodia cautelare.

Nella dura realtà fattuale delle carceri libanesi, tuttavia, queste norme vengono sistematicamente disattese. L’acqua potabile non è accessibile ai detenuti, né i fondi di cui dispongono sono sufficienti per acquistare acqua in bottiglia; i servizi medici sono inadeguati, i detenuti soffrono la mancanza di posti letto, di cibo, di spazi ricreativi e luoghi di incontro, nonché di supporto psicologico.

Inoltre, a causa dell’incapacità dell’amministrazione carceraria di curare i malati e di provvedere alla loro ospedalizzazione, in un anno sono morte tragicamente più di 23 persone: alcune a causa dell’impossibilità di assicurare le spese di cura, altre per negligenza medica statale: morti d’infarto e di ritardo, a causa dell’incapacità amministrativa di essere trasferiti all’ospedale più vicino; uccisi da lentezze burocratiche e interminabili routine. Inoltre, medici e infermieri sono attualmente in sciopero a causa dei bassi salari.

Quello della carenza di cibo, poi, è un problema certo aggravato dalla crisi economica – ma ad essa preesistito. Le soluzioni approssimative a cui lo stato ricorre per rispondere alla minaccia delle aziende fornitrici di interrompere le consegne alimentari – ulteriormente rinnovata a gennaio 2024 -, e a quella dell’aumento dei prezzi nelle mense – in cui i prodotti costano a volte il doppio o il triplo del loro valore di mercato -, indicano chiaramente che il problema è ben lungi dall’essere risolto radicalmente: ma piuttosto in modo parziale, distratto, e carente di una visione completa e a lungo termine. Sollecitato dalla mia domanda sul futuro della popolazione carceraria in Libano, Sablouh non sembra dubitare dell’imminente rischio di fame per migliaia di detenuti.

La protesta

Nel mezzo di quella che Mohamad Sablouh ha definito una cultura di violenza e intimidazione, quando un presunto criminale viene trasferito in carcere per scontare la pena, viene trattato duramente e privato dei suoi diritti più elementari, compreso quello a mangiare; e se prende posizione per manifestare pacificamente la sua opposizione, è esposto a violenze, percosse e torture. Lo dimostra l’episodio della caserma di Fakhr al-Din, avvenuto nell’agosto 2021 e documentato da diverse ONG locali.

Il 15 agosto 2021, Sablouh presentò una denuncia per maltrattamenti ai sensi della Legge anti-tortura n. 65 dopo che, il giorno precedente, uno dei suoi clienti era stato duramente picchiato da agenti di polizia militare nella caserma di Fakhr al-Din a Beirut, dove era detenuto. In quel periodo, a causa dell’aggravarsi della crisi economica, l’esercito – non più in grado di garantire cibo in quantità sufficiente sia ai suoi membri che ai prigionieri – iniziò a ridurre progressivamente i ritmi dei pasti, costringendo il personale di sicurezza a spartirsi ulteriormente il già scarso cibo fornito.

«Hanno detto ai prigionieri che il loro turno di mangiare sarebbe stato rinviato al giorno successivo perché il cibo scarseggiava, e questo ha scatenato una rivolta. I prigionieri hanno afferrato centinaia di cucchiai e hanno iniziato a sbatterli contro i muri e le sbarre in segno di protesta, rifiutandosi si accettare che venisse loro negato il pasto quotidiano e che alle loro famiglie venisse proibito di portare alimenti dall’esterno.» In risposta alla protesta, le guardie hanno fatto irruzione nelle celle e hanno aggredito fisicamente i detenuti con bastoni e armi, compresi i calci dei fucili. Sablouh, che all’epoca difendeva il caso di uno dei detenuti, Rabih Al-Dhahibi, ha immediatamente presentato una relazione sull’incidente al Procuratore Generale, Ghassan Oueidat, che ha poi deferito la denuncia al Commissario Governativo presso il tribunale militare, il giudice Fadi Akiki.

«Ho visitato i prigionieri dopo aver presentato denuncia,» ha detto Sablouh, «e ho visto le tracce di percosse e torture con i miei stessi occhi, le tracce di sangue sulle mani e sulla schiena dei prigionieri, compreso il mio cliente Rabih».

Secondo la Legge 65/2017, che criminalizza la tortura, la magistratura è tenuta ad adottare misure rapide per proteggere il detenuto e garantire i suoi diritti, la più importante delle quali è nominare un medico legale indipendente entro un massimo di 48 ore per esaminare la vittima e confermare o negare il verificarsi della tortura, conducendo indagini trasparenti sulle accuse, proteggendo il prigioniero e trasferendolo in un carcere diverso da quello in cui è stato esposto alla presunta violenza.

Sfortunatamente, però, il cliente di Sablouh sarebbe stato esaminato solo il 22 settembre 2021, più di un mese dopo i presunti maltrattamenti. Dopo essersi assicurato che le tracce delle percosse e delle torture fossero scomparse, il giudice Akiki ha incaricato un medico legale di esaminare solo il cliente di Sablouh. Senza la presenza di altri, neppure dell’avvocato, Akiki ha convocato Rabih nel suo ufficio e lo ha interrogato, spingendolo ad affermare che Muhammad Sablouh era un bugiardo e a negare di essere stato picchiato, promettendogli – come ricompensa – il rilascio.

«Il mio cliente, Rabih, ha rifiutato e mi ha subito informato della questione,» ha detto Sablouh. «Due giorni dopo, sono stato sorpreso dalla notizia che il Commissario Governativo presso il tribunale militare, il giudice Fadi Akiki, mi aveva accusato di insulto all’istituzione militare. Aveva chiesto all’Ordine degli avvocati di Tripoli il permesso di perseguirmi penalmente, ma il sindacato ha respinto la richiesta e ha risposto al giudice che stavo praticando la mia professione nel rispetto della legge libanese».

Nonostante le dichiarazioni di solidarietà provenute da associazioni di avvocati di tutto il mondo – Londra, Washington, Ginevra, nonché dall’Unione Europea e dalla Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani, Mary Lawlor – l’episodio della caserma di Fakhr al-Din solleva preoccupazioni allarmanti sulla sorte dei detenuti nelle carceri libanesi – dove migliaia di uomini e donne languono per mesi senza processo – e getta una nuova, inquietante luce sulla questione della tortura. Apre inoltre la porta a nuove discussioni sull’impatto della crisi economica ed energetica sul tipo di servizi forniti all’interno delle carceri, sulla loro qualità nel rispetto delle norme internazionali, oltre all’ombra dei lunghi periodi di detenzione senza processo a cui migliaia di detenuti libanesi e stranieri, soprattutto siriani, sono costretti.