Qualche settimana fa, il World Happiness Reports ha pubblicato il suo rapporto annuale sulla felicità mondiale tenendo conto dell’impatto di pandemia, rivolte, guerre e così via. Il Libano si è classificato al penultimo posto tra i 146 paesi, un gradino sopra l’Afghanistan. Lo stress, la preoccupazione, la tristezza e il calo del «godimento della vita», influiscono sui punteggi. Se i criteri di valutazione rimarranno questi, difficilmente il paese dei cedri scalerà questa particolare classifica grazie agli esiti delle elezioni del 15 maggio, le prime dopo la devastante esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020.

Il voto, al di là dei «successi» dei partiti dell’estrema destra cristiana – rappresentata dalle Forze Libanesi e dalle Kataeb – e dell’arretramento del blocco sciita-cristiano (che era emerso vincente alle elezioni del 2018), è destinato a cambiare ben poco nel panorama politico. Anzi, rischia di aggravare l’inefficienza dello Stato alla base del crollo economico e finanziario che ha travolto il Libano gettando nella povertà centinaia di migliaia di famiglie. Il sistema elettorale confessionale – una delle ragioni della paralisi libanese – vanificherà in buona parte il peso dei 16 seggi (presunti) indipendenti e dell’ingresso in parlamento (128 seggi) di 13 deputati considerati espressione delle proteste popolari, contro malgoverno e corruzione, dell’ottobre del 2019. Ad aggravare il quadro potrebbe contribuire anche l’insistenza con cui le Forze Libanesi di Samir Geagea, galvanizzate dal risultato elettorale, chiedono ora il disarmo del movimento sciita Hezbollah. Una richiesta che, lo sanno tutti i libanesi, non sarà mai accolta e che potrebbe addirittura portare il Libano vicino al baratro di una nuova guerra civile.

Hezbollah, la più potente delle formazioni libanesi e alleata di ferro di Tehran e Damasco, ha mantenuto i 13 seggi del 2018. A perdere invece sono stati i suoi alleati: l’altro partito sciita, Amal, è passato da 16 a 14 seggi e la Corrente patriottica libera, partito cristiano fondato dal capo dello Stato, Michel Aoun, ha ottenuto solo 17 seggi cedendo il ruolo di principale formazione cristiana alle rivali Forze Libanesi salite da 15 a 19 seggi. Nel campo sunnita anti-Hezbollah, nonostante l’appoggio esterno dell’Arabia saudita, si è registrato un ampio astensionismo e il partito Al Mustaqbal dell’ex premier Saad Hariri – che alla vigilia del voto aveva invitato gli elettori a boicottare le urne – ha ottenuto solo sei seggi (gli altri sunniti eletti sono sostenitori della linea del movimento sciita). Il Partito socialista progressista (druso) e i suoi alleati hanno ottenuto solo otto seggi.

Il travaso di voti dal blocco 8 Marzo guidato da Hezbollah a quello avversario filoccidentale 14 Marzo, di fatto non cambia nulla a favore della stabilità del paese. Nessun partito ha la maggioranza per governare da solo, quindi saranno necessarie delle alleanze nel Parlamento. La paralisi politica, perciò, proseguirà. Formare un nuovo governo sarà ancora più complicato che in passato e la crisi economica potrebbe persino aggravarsi mentre le istituzioni internazionali e diversi paesi reclamano la realizzazione di riforme strutturali per sbloccare i finanziamenti destinati al Libano.

Il voto comunque merita qualche riflessione sul piano sociale e politico e sui riflessi che avrà nella regione. Il passo indietro dell’8 Marzo è importante, spiegava questa settimana l’analista Maher Khatib sul giornale Al Nasraa. «Questo blocco – ha scritto – non è riuscito ad attrarre gli elettori insoddisfatti e desiderosi di quel cambiamento radicale invocato durante le proteste del 2019…Ha commesso l’errore di cercare di trasformare le elezioni in una sorta di referendum sulle armi di Hezbollah invece di prestare attenzione alle questioni economiche e sociali che riguardano i cittadini».  Un errore che, unito ad altri, favorisce adesso la campagna delle Forze Libanesi volta a mettere sotto pressione Hezbollah e la sua ala armata.

Sul piano regionale, il voto offre all’Arabia saudita l’opportunità di rientrate pienamente in gioco per ridurre, a proprio vantaggio, l’influenza dell’Iran a Beirut. Non manca però chi, con più ottimismo, vede nei colloqui in corso tra Teheran e Riyadh una possibilità vera di riconciliazione tra i due paesi che potrebbe avere risvolti positivi anche per il futuro del Libano.