I lavori sull’infanzia di Lev Vygotskij, che è stato molto di più di uno psicologo, hanno influenzato, forse non a sufficienza, la pedagogia del XX secolo: le ricerche di un ragazzo che, ormai prossimo alla persecuzione staliniana, morì a trentasette anni restano fondamentali per l’odierno dibattito filosofico circa la natura umana e il linguaggio verbale. Per questa ragione, la recente raccolta di cinque saggi inediti in italiano non poteva avere titolo migliore: La mente umana (a cura di Luciano Mecacci, Feltrinelli, pp. 278, € 12,00), studiata da Vygotskij a tutto tondo in scritti che compongono un volume potente, in grado di offrire una panoramica finalmente ampia su un pensatore maledetto: dallo stalinismo perché refrattario a ricerche di regime, ma anche da buona parte della rivisitazione critica avvenuta in Occidente dagli anni Sessanta in poi.

Se nell’Unione Sovietica Vygotskij venne condannato in quanto psicologo, cioè scienziato borghese, nel resto del mondo fu acclamato, ma in termini riduttivi, quale alter ego caricaturale di Jean Piaget o pensatore vagamente interessato all’influenza della società sul pensiero umano. Come sottolinea Luciano Mecacci in una densa nota introduttiva, parte integrante di un esemplare apparato critico che offre un glossario teorico e puntuali note al testo, Vygotskij non è pensatore del fatto sociale, ma del dramma storico tipico della natura umana.

Pensiero e azione
Non sottovaluta l’importanza dei fattori innati. Circa la nostra vita psichica e affettiva, conferma senza remore l’esistenza di «una certa componente biologica fondamentale su cui si forma l’emozione». Allo stesso tempo, è proprio il nostro cervello a contenere «enormi potenzialità per lo sviluppo di nuovi sistemi» di tipo storico. La biologia umana apre alla possibilità di far interagire pensiero e linguaggio, pensiero e azione, intelletto e affetto secondo le più diverse modalità di connessione. Una è ontogenetica: lo sviluppo del bambino è segnato dal continuo rimodellamento delle facoltà.

Durante l’infanzia, sottolinea Vygotskij, il bambino quando pensa in realtà ricorda: per risolvere un problema fa appello a esperienze passate e concrete. A partire dall’adolescenza, si verifica una inversione, dal momento che «ricordare significa pensare»: chiamato a una prestazione mnemonica, il giovane sapiens tende a cavarsela con una ricostruzione logica dell’accaduto.

L’altra faccia della questione è schiettamente storica: le connessioni tra le facoltà umane si realizzano attraverso «tre tappe» differenti. La prima è interpsichica, poiché si realizza fra due o più menti. Il bambino è in grado di compiere un’attività (non mangiare la torta al cioccolato) solo su suggerimento di un adulto che gli dica di non farlo. La seconda è extrapsichica: parlando a sé stesso il bambino riesce a non assaggiare il dolce che gli è di fronte. L’ultima è intrapsichica: la relazione tra parlanti diventa rapporto tra «due punti del cervello» che si trasformano in un unico «punto intracorticale». Il bambino padroneggia il proprio comportamento, evita la colica intestinale pensando silenziosamente che forse non è il caso.

Queste tappe non seguono un destino predeterminato, piuttosto si distendono lungo direttrici storico-culturali. Nelle popolazioni primitive, ad esempio, spesso il sogno assume il ruolo svolto nel nostro mondo dal pensiero: prima di prendere una grave decisione, occorre sognarci su, attendere che il sogno indichi la via. Proprio nell’apertura biologica alla storia tipica degli umani è possibile ritrovare la soluzione al contrasto tra apprendimento sociale e maturazione organica. A mostrare la necessità di entrambi è un altro architrave teorico del testo, ciò che Vygotskij chiama «zona di sviluppo prossimo». Mecacci sottolinea il senso teorico dell’aggettivo finale: nel bambino si constata la presenza di zone prossime (e non «prossimali» come spesso è tradotto il termine) perché l’insistenza sull’importanza della dimensione storica non va confusa con l’ammirazione per i bei tempi che furono.

«Storia» vuol dire innanzitutto «apertura verso il futuro». Non di rado, infatti, il bambino si trova nella condizione di affrontare insieme agli altri problemi che da solo non sarebbe ancora in grado di risolvere. L’intervento pedagogico può deviare, accelerare, rallentare i processi di sviluppo. Questo «fare insieme» è una turbina politico-linguistica che modifica profondamente il destino ontogenetico dei sapiens: non può certo ridare la vista al cieco o far ritrovare pienezza logico-matematica al bambino con deficit cognitivi, come recita tanta psicopedagogia postmoderna. Ha fatto sì, tuttavia, che i ragazzi studiati nella Russia di fine Ottocento dalla cosiddetta «difettologia» non fossero più considerati forme d’infanzia mancante diventando piuttosto un centro di gravità permanente per nuove forme storiche della conoscenza e della personalità umana.

Le regole del gioco
Nel saggio circa le attività ludiche, tra i più belli del volume, Vygotskij torna sulla questione. Il gioco è manifestazione sia della forza che della debolezza del bambino. Per un verso, tramite il gioco «avviene una emancipazione della parola dalla cosa». Quando fa di una scopa il suo cavallo, il bambino rovescia il rapporto tra cosa e significato. Il nome «cavallo» non fa più parte dell’animale che lo richiama: grazie al gioco, il nome trova autonomia ed è in grado di dar vita a tutti i cavalli immaginari e ludici del mondo. Per un altro verso, allo scopo di compiere «tale rivoluzione», l’infanzia ha bisogno di un «punto d’appoggio», cioè di un altro oggetto. Per invertire il rapporto di forza tra la parola «cavallo» e il quadrupede che nitrisce occorre il bastone, una cosa presente qui ed ora. Il giocattolo diventa, allora, il fulcro di una svolta che consente al bimbo di lavorare a nuove zone di sviluppo prossimo.

Liberatosi dalla tirannia dell’oggetto, «nel gioco il bambino è sempre al di sopra della sua età media», poiché intraprende un duro corpo a corpo con la nozione di «regola»: limita, spesso e volentieri, il rumoroso ondeggiare di pulsioni e facoltà umane. Una limitazione apparente perché assume presto la forma di un padroneggiamento di affetti, pensieri e parole grazie al quale organizzare da sé la propria esistenza. Il gioco, sintetizza Vygotskij, è «la regola divenuta affetto». Tramite l’attività ludica il bimbo impara a desiderare: non più qui e ora, ma altrove e in futuro. Infanzia e storia non costituiscono un rumore di fondo della mente umana, ma le forze motrici in grado di trasformare e ostacolare, accelerare o rallentare le sorti della nostra esistenza.

Marco Mazzeo

*******

Un precursore attratto dalla creatività e da esperimenti in zone remote
di Valentina Parisi
Condensate nell’ambito di un decennio, dal 1924 al 1934, le ricerche di Lev Vygotskij furono pesantemente condizionate da attacchi personali e problemi con la censura, ma anche favorite dall’irripetibile effervescenza culturale degli anni Venti.
Interlocutore di Roman Jakobson, Il’ja Erenburg, Sergej Ejzenstejn, Osip Mandel’stam, Viktor Sklovskij, grazie alla mediazione del fratello David, che fu critico letterario, Vygotskij era nato a Orsha, in Bielorussia, in una famiglia ebraica nel 1896.
Decisivo per la sua formazione si rivelò l’incontro nel 1924 con Aleksandr Lur’ja, allora segretario dell’Istituto di Psicologia Sperimentale di Mosca, che lo convinse a trasferirsi nella capitale.
Il sodalizio avviato in quegli anni con Aleksej Leont’ev e lo stesso Lur’ja fu la base per l’elaborazione della teoria «storico-culturale» di Vygotskij: da una parte introduceva la nozione di sistema per descrivere l’organizzazione funzionale del cervello umano; dall’altra, sulla scorta della filosofia marxiana, sottolineava la dipendenza dei processi psichici dalla dimensione storica e culturale. Inedita era anche l’attenzione che lo psicologo russo dedicava all’uso degli strumenti, da lui considerati non tanto «protesi» esterne al corpo umano, quanto piuttosto mezzi interni a un’area della mente, essenziali per interagire con lo spazio circostante.
Innervata da un forte interesse per la creatività artistica e basata su una prassi sperimentale condotta nei contesti più svariati – ad esempio l’Uzbekistan, raggiunto dalle «spedizioni psicologiche» organizzate insieme a Lur’ja nel 1931-1932 – la ricerca di Vygotskij fu messa al bando su risoluzione del Comitato centrale del Partito comunista nel 1936, in quanto tacciata di idealismo; ma l’autore all’epoca era già morto da due anni, essendo stato stroncato prematuramente dalla tubercolosi, malattia di cui aveva sofferto per gran parte della sua breve esistenza.