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L’Europa nella Rete, Strasburgo approva il Digital Services Act e il Digital Markets Act

L’Europa nella Rete, Strasburgo approva il Digital Services Act e il Digital Markets Act – Getty Images

Internet Via libera definitivo del Parlamento europeo al pacchetto digitale che proverà a contrastare le pratiche sleali e il dominio delle piattaforme (americane) sui mercati. Ma non mancano le ombre

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 6 luglio 2022

“Tutto ciò che è illegale offline ora sarà illegale anche on line”. Parole altisonanti quelle di Ursula von der Leyen, la presidente della commissione europea, che ci accompagnano da mesi, da quando sono entrate nella fase finale le trattative – riservatissime – sul Digital Services Act e sul suo “gemello” Digital Markets Act. Parole che senza molta fantasia la presidente ha ripetuto anche oggi, il 5 luglio, quando i due mega impianti legislativi sono stati votati a stragrande maggioranza dal parlamento europeo.

E che provano a ridisegnare tutto – ma proprio tutto tutto – ciò che riguarda la rete, il digitale, le attività on line nel vecchio continente. Decine, centinaia di norme e regolamenti, capitoli, “raccomandazioni” che entreranno in vigore con tempi e modi diversi. Il grosso, a gennaio 2024.

Una sterminata legislazione, si diceva, che è un po’ diversa da quella che pure era stata votata nei mesi scorsi dal parlamento di Strasburgo. Perché quei documenti iniziali sono poi passati al vaglio del cosiddetto – con un orrendo neologismo – “trilogo”, la trattativa a tre, fra la commissione, governi nazionali ed una ristretta delegazione del Parlamento. Sì, l’Europa legifera in questo modo.

Il “trilogo” ha così riscritto buona parte della voluminosa architettura legislativa e ha rimandato le 400 e più pagine al Parlamento per il voto definitivo. Prendere o lasciare, senza possibilità di emendamenti, con un esito scontato.

Sicuramente, da dopo il voto del 5 luglio, qualcosa cambierà per tutti. Forse l’entusiasmo della socialdemocratica danese, relatrice per il Dsa, Christel Schaldemose – “nel mondo digitale è finito il tempo del Far West, con i più forti a dettare le regole, ora c’è un nuovo sceriffo in Europa” – è sembrato a tanti esagerato, ma sicuramente qualcosa cambia.

Cambia a cominciare dal mercato, dove i gruppi europei avranno più chances rispetto ai potentati americani (e forse, perché non dirlo?, è proprio questo il fine ultimo di gran parte delle norme approvate nel Digital Markets Act). Perché i colossi del settore – nei testi si definiscono gatekeepers – da FaceBook a Google, passando per Apple, dovranno garantire un “ambiente commerciale più equilibrato”, dovranno consentire che sui loro store si possa vendere qualsiasi app e prodotto, dovranno “favorire” i loro utenti, consentendo loro di disinstallare facilmente app e software suggeriti.

Dovranno fare spazio, insomma, alle società europee, alle start up. E ancora, dovranno consentire quella che con molta enfasi chiamano interoperabilità fra sistemi operativi diversi, anche se poi nella realtà il testo consente solo di inviare messaggini da una chat ad un’altra, da WhatsApp a FaceTime. Tutto qui. Con un problema tecnico non secondario, comunque, visto che i social che utilizzano una messaggistica crittografata oggi non possono scambiare contenuti con altri social, pena la perdita della segretezza che li contraddistingue. Ma proprio per questo a loro, a WhatsApp e pochi altri, viene dato un po’ più di tempo per adeguarsi.

Qualcosa di nuovo anche sul versante degli utenti, dei diritti degli utenti. E qui si parla del Digital Service Act.

Qualcosa: i grandi gruppi che gestiscono i social non potranno più profilare i dati che riguardano i bambini, i minori. FaceBook e gli altri facevano e fanno anche questo. Non potranno più profilare gli utenti sulla base del loro orientamento politico, religioso, sessuale.

Si parla espressamente dei social, dei gruppi che li gestiscono. Perché misteriosamente, invece, il divieto di raccolta dati a fini pubblicitari – sinonimo della profilazione degli utenti – continua invece ad essere permessa per i siti Web. Che comunque – altro elemento non certo secondario – non potranno più usare ciò che si chiama dark pattern, le pratiche ingannevoli. Quelle per le quali sullo schermo del computer ti appare un bottone che ti dice scritto in caratteri cubitali: se vuoi proseguire clicca qui, e poi sotto, a caratteri illeggibili, aggiunge “se scegli ok accetti anche l’uso dei tuoi dati”. Questo non sarà più permesso.

Cambia tanto? Un po’, solo un po’, perché comunque le nuove regole consentiranno ancora – con qualche limitazione – ai banner e ai cookie di tracciare, di “lavorare” come hanno sempre fatto.

Di più, d’ora in poi – per la prima volta – le Big Tech dovranno render noto agli esperti nominati dall’Europa, come funzionano e quali algoritmi adottano per moderare i contenuti on line. Come insomma combattono l’incitamento all’odio, al razzismo, alla violenza.

Dovranno spiegare quante persone impiegano nel settore, quali metodologie, dovranno fornire report annuali dettagliati. Pena sanzioni gravissime. Delle quali stavolta si occuperà direttamente Bruxelles, non qualche organismo nazionale, da sempre meglio disposto verso i colossi.

Ma anche qui, col risvolto della medaglia: le Big Tech per moltiplicare i loro sforzi nel moderare i contenuti potranno ricorrere a strumenti tecnologici, ai cosiddetti filtri automatici. Non esclusi affatto nelle normative. L’intelligenza artificiale, insomma, potrà controllare preventivamente tutto ciò che va in rete. E che – è stato dimostrato – “censura” frasi ed immagini perfettamente legittimi nel 90 per cento dei casi, limitando la libertà d’espressione.

Si potrebbe continuare a lungo. Ma c’è un elemento che sembra essere sfuggito ai tanti commenti entusiasti che riempiono la rete in queste ore. Che è sfuggito a tanti ma non ad Edri e ad Access Now, due delle organizzazioni più autorevoli nella difesa dei diritti digitali.

Perché nel Dsa è stato introdotta una norma che non c’era affatto nelle prime stesure. E’ stata introdotta all’inizio di marzo, una settimana dopo l’invasione dell’Ucraina. Si chiama Crisis Response Mechanism (CRM). E’ lo strumento legislativo che consentirà alla Commisisone europea di assumere i “pieni poteri” su tutte le attività online davanti a “gravi stati di crisi”. Guerre, catastrofi, disastri ambientali, non è specificato. In quei casi, la Commissione potrà fare quel che vuole, decidere cosa si può vedere e cosa no.

Della norma – poche righe – si è venuti a conoscenza solo pochissimo tempo fa. Immediatamente c’è stata una levata di scudi da parte delle forze democratiche, della società civile. Ma il quadro non è cambiato: ora c’è l’aggiunta che questo “controllo eccezionale sulle reti” potrà avvenire solo su proposta dell’European Board for Digital Services, altro organismo di nuova creazione. Ma lo “stato d’eccezione” potrà durare sempre tre mesi e potrà essere prorogato. Tante volte. Unilateralmente.

Qualche luce, dunque, ma anche tante ombre.

Del resto chi ha lavorato alle fasi iniziali delle nuove norme, nelle stanze più riservate, e poi ha deciso – sgomento – di cambiare lavoro, ha raccontato proprio in queste ore sul Guardian, l’immenso sforzo lobbistico delle multinazionali per stemperare, annacquare, cancellare le parti incisive del Dsa e del Dma. “Uno sforzo addirittura inferiore a quello delle compagnie del tabacco all’epoca delle leggi americane a tutela della salute”, scrive Georg Riekeles.

E allora, a ben vedere, in qualche modo ha ragione la presidente von der Leyen: nel senso che quello che vale offline vale anche on line. Perché lì, nel mondo fuori dal digitale, decidono e comandano pochi gruppi monopolisti. On line lo stesso. E per dirla con l’eurodeputato verde Patrick Breyer, “a parte alcune belle enunciazioni, le nuove norme non intaccano di una virgola il capitalismo della sorveglianza, i suoi meccanismi”.

Ma – hanno avvertito in aula quei pochi che hanno votato – non è finita qui.

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