La suspense si scioglie nel primo pomeriggio. Non riguardava la sofferta scelta di Sinistra italiana in merito all’alleanza con Letta e Calenda. Su quella non c’erano dubbi già dalla sera precedente e in realtà, sceneggiate a parte, non ce n’erano mai stati. In ogni caso l’Assemblea nazionale di Si aveva già formalizzato dando al segretario Fratoianni pieno mandato di negoziare l’accordo con il Pd: 61% favorevoli, 5% astenuti e 31,8% contrari (tra cui Luciana Castellina) e nessuna consultazione della base, nonostante la richiesta della minoranza, ché non si sa mai. Il vero quesito era a quale funambolismo avrebbe fatto ricorso il segretario del Pd per giustificare la più assurda tra le coalizioni, il più improbabile tra i modelli di alleanza.

Quando alle 15 Fratoianni e Bonelli arrivano da Letta, i contenuti dell’intesa sono già chiari. Europa verde farà campagna elettorale sui propri temi, con la «propria visione del futuro dell’Italia», il tutto però tenuto insieme dalla volontà di «una svolta progressista ed ecologista», e scusate se una formula ancora più vaga non la si è trovata. Fratoianni vorrebbe anche riaprire al M5S, o almeno la butta lì pur sapendo che è pura chiacchiera. L’«alleato strategico» Bonelli dissente: «Il M5S sta bene dove sta».

IN TERMINI DI SEGGI SONANTI, la «pari dignità», per la verità piuttosto impari, è garantita dall’assegnazione ai Rosso-verdi del 20% dei collegi, calcolati però nella quota rimasta al Pd dopo le concessioni ad Azione e Europa. Sembrano tanti, ma quelli blindati non vanno oltre i 4. In conferenza stampa non si dice chiaramente che la partizione va computata al netto del 30% dei collegi già consegnato a Calenda. Ma è così, dal momento che il leader centrista, attento ai particolari, lo aveva fatto mettere nero su bianco. In definitiva al Pd dovrebbero spettare 83 collegi uninominali alla Camera e 42 al Senato, a Calenda 44 e 22 ma con quota blindata molto alta, ben 15 collegi, ai Rosso-verdi 20 e 10 collegi.

RESTA DA SCOPRIRE solo come se la caverà Letta, costretto a uno slalom spericolato. Tanto più che Calenda è in agguato. Sfodera tweet sibillini ma minacciosi, come quello in cui si complimenta con Si ma solo per sferzare Letta, che in fondo è il suo vero rivale: «Almeno loro sono chiari».

Per fortuna c’è la Costituzione che offre un riparo sempreverde. Il mastice tra Pd e Ev è difendere la Carta minacciata dall’orda di destra, con buona parte della quale il Pd peraltro governa. «Questo accordo si muove su un livello diverso da quello con Calenda», specifica l’acrobata del Nazareno. «Non sto parlando di un accordo di governo. Lancio questo allarme. Senza questi accordi elettorali la Costituzione sarebbe a rischio, potrebbe essere riformata da Salvini e Meloni». Tirando le somme della pochade durata giorni e giorni: c’è un’alleanza di governo, come conferma lo stesso Letta, tra il Pd e Azione, che condividono un programma di governo. Poi c’è un’altra intesa, che prevede di prendere i voti insieme per non governare insieme ma serve a difendere la Carta. I due accordi sono «separati ma non incompatibili», formula destinata a sostituire le«convergenze parallele» di Moro, si parva licet, nel Guinness dei bizantinismi della politica italiana.

Neppure un pirotecnico Letta, però, è in grado di spiegare perché la salvezza della Carta non valga l’estensione del muro difensivo al M5S: «Non crediamo sia utile… È questione di coerenza». Insomma le classiche spiegazioni che non spiegano. Inspiegata, da questo punto di vista, è anche la scelta di chiudere, pur senza dirlo apertamente, le porte in faccia a Renzi. Lui se la spiega così: «Piccole vendette personali». Il Nazareno risponde con lo stesso garbo: «Prima di scappare con la sua personale scialuppa ha tentato di affondare il Pd lasciandolo in macerie». Di fatto tanto i voti di Renzi quanto quelli di Conte non devono servire alla santa causa. Difesa della Costituzione sì, ma fino a un certo punto.

Risolto bene o male il rebus degli alleati che si detestano reciprocamente, Letta passa al caso Di Maio. Incontra il ministro e Tabacci, conclude il contratto assegnando a Impegno civico l’8% dei collegi più «il diritto di tribuna», al secolo il posto per Di Maio nel listone proporzionale del Pd. Se poi dal logo scomparisse il nome di un leader che si candida da un’altra parte la faccenda sarebbe un po’ meno indecorosa. Tabacci, proprietario del simbolo che permette di non raccogliere le firme, lo vuole cancellare ma per il momento l’increscioso caso resta in sospeso. «Adesso rimbocchiamoci le maniche», esorta il prestigiatore Letta alla fine della lunga giornata. Non si può dire che sia partito nel modo migliore.