L’etnia italiana e il razzismo differenzialista
Commenti La destra richiama una supposta identità nazionale per evocare differenze orizzontali noi-loro, mentre lavora attivamente per esacerbare quelle verticali e di classe
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Agli Stati generali della natalità, il ministro Lollobrigida intervistato ha detto: «Non esiste una razza italiana. Esiste però una cultura, un’etnia italiana, che in questo convegno si tende a tutelare». Il riferimento all’etnia invece della razza ha caratterizzato la cosiddetta «nuova destra» francese sin dalle tesi di Alain de Benoist sulla «differenza etnica». La tesi sosteneva che la diversità etnico-culturale è una sorta di fatto naturale e che ogni gruppo etnico o culturale deve essere in grado di preservare la propria identità e il proprio patrimonio culturale.
TUTTAVIA, DE BENOIST aveva anche sostenuto che la differenza etnica e culturale dovrebbe essere rispettata ma non dovrebbe giustificare la disuguaglianza o la discriminazione. Ha criticato il razzismo biologico e ha sottolineato che la diversità etnica non dovrebbe essere utilizzata come un’arma politica per giustificare l’oppressione di un gruppo etnico o culturale da parte di un altro.
Tutto bene, dunque? Il riferimento del Ministro Lollobrigida è il differenzialismo culturale? Per nulla. Anzitutto perché nel senso comune etnia e razza sono utilizzate in modo intercambiabile. Non sono molte le persone che sanno come i biologi abbiano da tempo negato l’esistenza di differenze genetiche sistematiche riconducibili ai tratti somatici. Le razze biologiche su base genetica non esistono, ma questa verità scientifica non è patrimonio del senso comune. L’espediente del senso comune, quella «filosofia ingenua» che per Gramsci utilizziamo come mappa per muoverci nel mondo e per classificarlo, è quindi un modo politicamente corretto per evocare inesistenti differenze genetiche tra gli italiani e «gli altri».
DAL MOMENTO CHE il richiamo alle razze è politicamente scorretto – oltre che scientificamente falso, ma questo come appena scritto non è il problema – allora si chiama in causa la più accettabile concezione di etnia». Del resto, anche la tesi della differenza etnica e dell’identità culturale comune e condivisa è falsa. Non esiste una cultura italiana o un’identità nazionale omogenea. O, meglio, ciò che ci rende simili riguarda poche e selezionate dimensioni. Gli italiani si ricordano della loro identità nazionale «a tutto tondo» solo in occasione della vittoria ai Mondiali, o quando sono costretti a cercarla perché si trovano in situazioni non famigliari e, per questo, hanno bisogno di un punto di riferimento per ridurre l’incertezza.
Del resto, neppure abbiamo un’identità regionale (o, meno ancora, macro-regionale) condivisa: non ci sentiamo «lombardi» o «abruzzesi» più di quanto ci sentiamo «milanesi» o «pescaresi».
SONO I COMUNI o l’area vasta che li comprende il riferimento simbolico-identitario degli italiani. Spesso, data la complessa morfologia e struttura insediativa del paese, i riferimenti culturali che contano si giocano a livelli ancora più “micro”: singole valli, zone produttive, reti di paesi, città medie, meso-regioni funzionali. È la differenza interna il tratto comune del paese, non la somiglianza o l’omogeneità. Ne scrivono, dati alla mano, Fabrizio Barca, Emmanuele Pavolini e Carlo Trigilia, per l’Enciclopedia Treccani.
Gli autori sottolineano che si riscontra una certa omogeneità tra regioni solo per le caratteristiche della costituzione delle famiglie e, in parte, per i tratti assunti dalle reti e dalle relazioni sociali, lette sotto il profilo della socialità e dei comportamenti alimentari e relativi alla salute. Siamo simili tra regioni – e quindi «italiani» – solo per quelle dimensioni più vicine alla vita quotidiana, come famiglia-amici-cibo-salute.
NON A CASO I RIFERIMENTI principali delle pubblicità e di un certo marketing politico.
Ben poca cosa rispetto a ciò per cui le regioni si differenziano: il supporto attivabile tramite le reti informali, la composizione della famiglia, la partecipazione sociopolitica, gli orientamenti valoriali generali, il ricorso al dialetto e all’identità territoriale mostrano infatti ben più bassi livelli di omogeneità inter-regionale. Anche le dimensioni più influenzate da variabili economiche o dall’azione pubblica presentano in modo uniforme maggiore disomogeneità.
IL RICHIAMO A UNA supposta identità italiana su base identitaria e culturale, quindi, non ha una valore descrittivo – cioè non richiama uno stato di cose esistente – ma possiede un valore performativo: serve per creare quelle condizioni necessarie per sentirsi ciò che non siamo. Nel farlo, la destra evoca come da tradizione differenze orizzontali noi-loro, mentre lavora alacremente per esacerbare quelle verticali e di classe. Non è certo una novità. Per la destra, da sempre, i conflitti sono solo orizzontali e mai verticali. Sono conflitti tra ingroup e outgroup, tra simili e diversi. Mai tra diversi interessi di classe, tra chi ha e chi non ha.
(Twitter: @FilBarbera)
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