Non diversamente dalla principessa Varvara Nikanorovna, il meraviglioso personaggio centrale del romanzo Una famiglia decaduta (1874), ora ristampato dall’editore Fazi nell’ottima traduzione di Flavia Sigona (pp. 286, euro 16,00), anche Nikolàj Leskóv non amava la nuova nobiltà, i parvenu, gli arricchiti, gli arrampicatori sociali, gli impostori e gli ipocriti azzimati da devoti di una fede che consente loro vanitose e vistose e inutili opere di beneficenza mentre vengono lasciati morire di fame i contadini.

E sempre al pari dell’aristocratica ed eccentrica signora, perno di quel capolavoro di magistrale asciuttezza, lo scrittore diffidava della dismisura e rifuggiva con fermo disincanto da ogni accesa disputa ideologica, da ogni forma di misticismo dell’apparenza, da ogni manicheismo inconcludente, tanto urlato quanto fatuo. Egli piuttosto si riconosceva nella mitezza intransigente e umile dell’ortodossia russa e nella sua tradizione più popolare e intensa.

Il barometro, nei libri di Leskóv, inclina allo smascheramento delle utopie e delle opposte ideologie, e fu soprattutto per tale ragione che egli a sua volta restò inviso ai riformisti, ai conservatori e ai nichilisti. Non suscitava passioni forti una letteratura, come quella sua, che si voleva essenzialmente votata a un sentimento equilibrato, si potrebbe dire pratico ed essenziale.

«Ma la mia fede è piccola: non dà alla mia mente la forza necessaria per guardare così in alto: io mi tengo al terragno, al palpabile. Io penso ai mortali che amano il bene per il semplice bene e non si aspettano nessuna ricompensa per quello che fanno, da nessuna parte»»: è con queste parole infatti che Leskóv si avvia a concludere il racconto intitolato L’uomo di sentinella, datato 1887, dopo che il testimone e narratore dell’evento straordinario ha finito di ricordare ad alta voce la sua storia, semplice e luminosa insieme, ovvero quella del soccorso e del salvataggio di un ubriaco caduto nelle acque gelide della Nevà da parte di un soldato che decide di abbandonare, contro ogni regola e a rischio di gravi sanzioni, il posto di guardia davanti al palazzo dello zar (siamo a Pietroburgo nell’inverno del 1839 e, tiene a precisare fin da subito l’autore, ««di cose inventate, nel racconto che sta per cominciare, non ce ne sono»»).

Ma queste parole sono al tempo stesso la dichiarazione di una poetica attorno alla quale si raggruma l’intera opera dello scrittore nato nel 1831 e morto nel 1895, così volendola egli in qualche modo trascinar fuori dalle infiammate tensioni politiche dell’epoca per riporla quasi in una nicchia solitaria e isolata, al cui centro, come astro perenne, brilla la figura del «giusto», dell’uomo etico, morale – figura che attraversa le classi sociali in maniera trasversale per consegnare al lettore, ad esempio, ancora in Una famiglia decaduta, oltre alla principessa, il prode Dorimedont Vasiljevic Rogozin detto Don Chisciotte, e poi il protagonista de Il pecorone (1863) o quello, mirabile per integrità e per spirito d’avventura, de Il viaggiatore incantato (1874), e così avanti fino a includere i personaggi dei racconti ora riuniti, nella nuova versione e a cura di Paolo Nori, per i tipi di Marcos y Marcos: Tre giusti (pp. 253, euro 13,00).

Il volume, oltre al già citato L’uomo di sentinella (che in un primo tempo doveva intitolarsi «Il salvataggio dell’uomo in pericolo di vita»), comprende A proposito della sonata a Kreutzer (composto nel 1890 e uscito postumo nove anni dopo, pensato anch’esso con un diverso titolo: «La signora ai funerali di Dostoévskij») e L’angelo sigillato, del 1873, in cui la narrazione (a parlare è un Vecchio Credente) si piega e sbianca di tenerezza dinanzi alla ricerca di un’icona prima sequestrata a un gruppo di fedeli dalle autorità religiose e infine perigliosamente recuperata – un racconto che in qualche maniera spiega come Leskóv sia lo scrittore che, secondo l’opinione espressa dal principe Dimitrij P. Minskj nella sua classica Storia della letteratura russa, meglio di chiunque altro ha saputo significare l’anima e lo spirito del suo popolo, annotazione non di poco conto e peso se soltanto pensiamo ai suoi contemporanei e a quel mezzo secolo dell’Ottocento dentro cui operarono, a formare una costellazione formidabile, Tolstòj (di tre anni più vecchio), Dostoèvskij, Turgènev, Goncharov, Saltykov-Šcedrìn e il giovanissimo Cèchov.

I «giusti» sono anche matti, menomati di senno, strambi e grotteschi e buffi oppure «eroi umoristici» (per dirla proprio con Minskj). L’orizzonte entro cui agiscono e si muovono è privo di paesaggio, la natura non vi esercita alcuna funzione (a differenza, ad esempio, che in Turgènev).

Nemmeno vi sono ardite ascensioni filosofiche (come in Dostoèvskij) o immensi movimenti di masse e affollati scenari (come in Tolstòj). Il paesaggio appare tutto interiore, l’elegia attiene al rapporto tra gli uomini.

Quasi sempre si tratta di «narrazioni di narrazioni», il cui ritmo calmo, disteso e (quando è il caso) esitante, segue il tempo e il respiro di colui il quale cerca e mastica le parole prima di pronunciarle, riproducendo così le pause e le accelerazioni di un racconto orale, raccolto in una stanza, in un luogo chiuso, magari attorno a un fuoco acceso per attenuare il clima rigido delle notti invernali.

Il prezioso segreto di Leskóv risiede ne rapporto col tempo – che poi coincide col tempo del racconto, come se egli, come ha detto Walter Benjamin nel giustamente celebre saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di N. L. (1936), fosse «andato a scuola dagli antichi», e data anche l’«affinità così profonda con lo spirito della favola» e del mito.

Se questo è vero, se è vero cioè che il «giusto» abita nell’opera di un narratore con le caratteristiche di Leskóv, allora pare altrettanto vero a Benjamin che proprio nella figura del narratore il «giusto» si specchia in se stesso e si ritrova e trasmette al futuro (persino rimuovendone l’angustia e il peso) l’idea del mondo come è sempre stato. E meglio, per questo scrittore, se le idee risultano «eterne e semplici», come le ha definite Leone Ginzburg in un saggio pubblicato nel 1948.
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pesso Leskóv sfiora le sfere del meraviglioso, del prodigioso; pure e insieme, in questo progressivo processo di avvicinamento, egli preme il pedale del freno dell’inspiegabile, dell’indicibile o dell’esoterico. I suoi restano al dunque eroi pratici, concreti, che non rinunciano all’esercizio della ragione. Come coloro i quali rischiano la vita per riavere la loro icona dai colori forti e «saldi come l’antica fede russa».

Questi contadini, questi operai, questi servi della gleba, che ad essa guardano come a una personale, privata «finestra sull’Assoluto», rappresentano la conferma di ciò che affermava san Gregorio Magno, secondo il quale «le icone sono per gli illetterati quello che la sacra Scrittura è per i letterati».

Proprio L’angelo sigillato ne dimostra una profonda conoscenza spirituale e anche (chiamiamola così) tecnica, tanto da spiegare la centralità di questo racconto negli studi specialistici di iconologia, da Pavel Florenskky a Leonid Uspenskij. E tuttavia resta in primo luogo indelebile una suggestione: che quel volto stampigliato e recluso somigli a quello dell’Angelo dai capelli d’oro, oggi a San Pietroburgo, un angelo che è già un annuncio di riflessioni future e di sguardi capovolti che soltanto il passato riesce a sopportare.