La storia del cinema è piena di film orfani, scomparsi, persi, che ricompaiono sia nei luoghi più insperati sia più semplicemente negli archivi che li conservano pazientemente, in attesa di qualcuno che li riattivi. Quest’ultimo è il caso di Les Mains libres di Ennio Lorenzini, che si trovava da decenni tra le migliaia di film conservati all’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico a Roma. Il film ha trovato una nuova vita, restaurato da L’Immagine Ritrovata di Bologna, usato dall’artista Zineb Sedira per il padiglione francese della Biennale Arte di Venezia, e proiettato in festival e conferenze.

Quello di Lorenzini è uno dei primi film algerini, frutto di una collaborazione tra Italia e l’Algeria da poco diventata indipendente. A marzo 1962, dopo una sanguinosa guerra durata otto anni, venivano infatti firmati gli accordi di Evian tra Francia e Algeria. Dopo il referendum, a inizio luglio, il paese nordafricano cominciava ufficialmente la sua nuova vita dopo il colonialismo.

La storia di come si è parlato e come si è vista la guerra algerina è indistricabilmente legata al cinema. La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo non soltanto è uno dei film più noti della storia del cinema, la cui influenza non sembra quasi sessant’anni dopo diminuire, ma ha anche costituito un modo efficace e diretto per far conoscere la lotta del popolo algerino, eretta a paradigma delle lotte per la decolonizzazione. Il film è stato adottato dalle Pantere Nere e da altri gruppi combattenti, usandolo anche per capire quali strategie utilizzare (lo ha fatto, in funzione invece contro insurrezionale, anche il Pentagono, tra le ultime applicazioni, durante la guerra in Iraq). Les Mains libres doveva essere, e in parte è stato, una sorta di contrappunto documentario all’epica di La battaglia di Algeri. Prodotto dalla Casbah film, la stessa casa di produzione algerina che ha prodotto il film di Pontecorvo, era stato pensato per raccontare il paese a due anni dall’indipendenza, proprio mentre il regista pisano preparava e poi girava il suo film su un episodio della guerra algerina, la battagli di Algeri appunto.

Il regista, Ennio Lorenzini, era un giovane filmmaker militante, che aveva all’attivo un breve documentario che all’epoca ebbe una sua circolazione (Edili, con Mario Curti, 1963) e avrebbe poi realizzato altri documentari come Non dirò il mio numero di matricola – Viaggio tra i disertori americani in Olanda (1969) e Cronaca di un gruppo (1968), su un gruppo di militanti francesi. Negli anni settanta si cimentò anche con un film di finzione, Quanto è bello lu murire acciso (1975), sulla spedizione di Carlo Pisacane. Lorenzini fece molti film per la Unitelefilm, la casa di produzione vicina al Partito Comunista Italiano, il cui archivio è stato ereditato proprio dall’AAMOD. Anche se Les Mains libres è una produzione algerina, non dell’Unitelefilm, l’archivio ne conserva una copia consegnatagli dallo stesso regista, che volle che i suoi film avessero una casa lì, dove è possibile consultare addirittura i film industriali della FIAT o Alitalia che Lorenzini realizzò negli anni (peraltro, in alcuni di questi non mancano trovate interessanti e scelte estetiche davvero notevoli).

Va dato merito a Zineb Sedira di aver fortemente voluto il restauro del film, effettuato da L’Immagine Ritrovata grazie alla Cineteca di Bologna, e di avergli ridato vita utilizzandolo nel padiglione francese da lei curato alla Biennale di quest’anno (che ha vinto una menzione speciale; ne abbiamo parlato sul manifesto del 24 aprile). In questi giorni, il film è proiettato al festival del cinema ritrovato a Bologna, e presto sarà possibile vederlo anche in altre proiezioni. Si tratta di un film a suo modo tipico del cinema militante dell’epoca, ma anche peculiare nella capacità che ebbe la troupe italiana di penetrare nella realtà algerina, grazie anche all’aiuto di maestranze locali – tra gli altri, Mohamed Zinet poi autore del film algerino Tahia ya didou! (il montaggio è invece di Mario Serandrei). La prima parte, «mare e deserto», racconta il ritorno degli algerini in patria dalla Francia e l’esplorazione del petrolio nel grande deserto del Sahara: riecheggiano qui gli stilemi del cinema industriale, molto in voga all’epoca. La seconda, «la lotta», è quella più esplicitamente politica, parlando proprio di come si è sviluppata la lotta per l’indipendenza. Infine, «la libertà», racconta le nuove sfide del paese, tra Islam e socialismo.

Les Mains libres e La battaglia di Algeri però non sono che la punta di un piccolo iceberg di produzioni, scambi, incontri, che andavano avanti tra Algeria e Italia negli anni cinquanta e sessanta. Il Comitato Anticoloniale Italiano (una delle organizzazioni attive nella solidarietà per il popolo algerino), per esempio, produce e fa circolare Algeria: anno settimo di Pompeo De Angelis, un cortometraggio militante che esce nel 1961. E poi diversi registi e fotografi italiani vanno in Algeria all’epoca, nel pieno della guerra, e appena dopo: dal leggendario regista underground Alberto Cavallone, che avrebbe realizzato (il condizionale è d’obbligo perché le prove documentarie sono davvero esili) il suo primo film proprio in Algeria, passando per Mario Dondero e Vittorugo Contino, che sarà poi un importante fotografo di scena, fino a Renzo Rossellini, il figlio di Roberto, che collaborò strettamente con i filmmaker algerini. Com’è noto, in quegli anni ebbe un ruolo fondamentale nel sostegno italiano alla lotta algerina Giovanni Pirelli, che sarà anche amico e traduttore di Frantz Fanon (che venne in Italia più volte in quegli anni, ma questa è un’altra storia, in gran parte ancora da scrivere).

Pirelli, con altri, è animatore per esempio di una grande mostra che si tiene a Milano poco prima dell’indipendenza, La nazione Algeria, e di diversi libri. Anche Guttuso prese a cuore la causa algerina, realizzando una serie di disegni, perché l’Algeria era una questione politica fondamentale in quegli anni, che vide l’Italia attivissima nel supporto (anche ad alti livelli, attraverso l’ENI) alla lotta per l’indipendenza e poi ai primi anni di vita nella nuova nazione. Insomma, insieme a Cuba e prima del Vietnam, la sinistra internazionalista guardava al Nord Africa. Se non si capisce questo contesto, ci si potrebbe chiedere il perché di questi film di Lorenzini e Pontecorvo. È proprio la lotta per l’indipendenza algerina che in Italia in quegli anni viene vista come paradigmatica; come scrisse in una lettera Franco Fortini a Elio Vittorini, «quel che accade in Francia e Algeria riguarda ciascuno di noi. Se l’avvenire della democrazia francese è legato alla soluzione del conflitto algerino, questo vuol dire che alla vittoria della nazionale algerina è legato anche l’avvenire della democrazia in ognuno dei nostri paesi».

Di questo e altro si occupa l’Annale dell’AAMOD, la pubblicazione annuale dell’archivio (in uscita in autunno e curato da chi scrive, Letizia Cortini, e Paola Scarnati), e se ne parlerà anche il 21 luglio in una giornata di studi, sempre all’AAMOD a Roma, con la presenza di Andrea Brazzoduro, Erica Bellia, Luca Caminati, e dello storico del cinema algerino Ahmed Bedjaoui. Sarà un’occasione anche per vedere Les Mains libres, ma anche per scoprire un altro film algerino, completamente dimenticato e solo recentemente riscoperto all’AAMOD. Si tratta di Novembre, un mediometraggio prodotto e girato dal servizio culturale del Fronte Nazionale di Liberazione algerino, di cui si sa pochissimo, non figurando praticamente da nessuna parte. Siamo a inizio anni settanta, con uno stile a metà tra cinema politico e sperimentale, e anche qui si parla della lotta per l’indipendenza, si vede il paese in evoluzione, alle prese con l’agricoltura e l’estrazione del petrolio. Bisognerà capire cosa conservano archivi algerini e forse francesi su questo film, e se ne esistono da qualche parte altre copie, ma intanto è importante vederlo e riscoprirlo a sessant’anni dell’indipendenza.

La messa in scena delle migrazioni: intervista a Zineb Sedira

Zineb Sedira è l’artista scelta dalla Francia per la Biennale d’Arte di Venezia di quest’anno. Ha una carriera lunga e importante, lavorando soprattutto sulla memoria e sulle relazioni tra generazioni diverse. L’abbiamo raggiunta per chiederle come ha lavorato su Les Mains libres e come lo ha incluso nella sua opera in laguna. «Stavo lavorando a un altro progetto, sul festival panafricano di Algeri del 1969 e sul film di William Klein. Mi sono resa conto che c’era moltissimo materiale. Sono andata diverse volte in Algeria, e anche grazie alla ricercatrice e curatrice Léa Morin che aveva contatti con la cineteca algerina e altre istituzioni ho visto moltissimi film finanziati dallo stato algerino, che non conoscevo. Quando mi hanno scelta per la Biennale (una scelta sicuramente anche politica), ho pensato a come intersecare Venezia (e la Mostra del Cinema) e Italia, Francia, Algeria… e poi sessant’anni dall’indipendenza, e la questione algerina che è sempre molto importante in Francia.

Volevi dare un taglio cinematografico…
Sì, la mia è senz’altro un’opera sul cinema. Ho pensato alle coproduzioni prima di tutto, quelle tra Italia, Algeria e Francia negli anni sessanta e settanta. Non solo film esplicitamente militanti, ma anche film che hanno un qualcosa di politico, un qualcosa di intellettuale che lega i filmmaker all’Algeria. Non sono naïve naturalmente, so che si andava a filmare in Algeria anche perché il governo pagava, ma rimaneva comunque la scelta di lavorare lì e spesso questo allineava i registi alle politiche algerine.

Come sei arrivata a «Les Mains libres»?
Continuavo a incrociare nella ricerca il titolo di questo film. Chiedevo in giro e mi veniva detto «sì sì esiste», ma nessuno sembrava averlo visto. Poi, dopo aver guardato per un po’ nei posti sbagliati, semplicemente consultando il catalogo dell’AAMOD abbiamo capito che loro lo avevano.

È molto interessante come usi «Les Mains libres» nel tuo progetto, inserendo te stessa nel ritorno degli algerini in patria.
Mi interessava il processo di ricreare pezzi di questi film, attraverso una forma di mise en abyme. Allora ho ricreato, usando amiche e colleghe come attrici, parte di questi film girati in Algeria, come Le bal di Ettore Scola, Lo straniero di Luchino Visconti, La battaglia di Algeri ecc, e questo girato è diventato parte del mio cortometraggio. Un film sul fare i film. Les Mains libres è stato un po’ il punto di partenza, ritorna ben quattro volte nel mio cortometraggio, a partire da quella che citavi, dove metto in scena la mia storia di migrazione e esperienza diasporica. Le altre clip, le ho lasciate com’erano, e non ho fatto nessun remake, ho messo proprio le scene del film, a differenza di come ho lavorato sugli altri. Ho poi girato altre scene (come quella di una festa) che anche se non erano direttamente in nessuno dei film su cui ho lavorato, erano motivi presenti nel cinema soprattutto militante dell’epoca, avevano dei riferimenti insomma. Mi sono molto divertita molto, costruendo questo film in un ambiente famigliare, mettendomi in scena.

Hai parlato dell’importanza del voiceover.
In molti di questi film che ho visto c’era una voce narrante maschile, anche molto poetica (quella di Les Mains libres sicuramente). Ho inserito la mia, in inglese con il mio accento francese: mi sembrava interessante provare così a portare un’idea di internazionalismo, visto che il mio progetto ha molto a che fare con lo spostarsi da paese a paese, le collaborazioni internazionali come quelle che l’Algeria aveva con Cuba, i paesi dell’Est, l’Egitto, la Jugoslavia. Ho provato a fare una voce narrante che fosse politica, militante, poetica ma doveva essere anche personale, visto che non sono una scrittrice. E così ho scritto della mia vita, cercando l’elemento politico: sono cresciuta nei sobborghi di Parigi, come franco algerina negli anni sessanta, quando c’era molto razzismo. Grazie al voiceover, ho legato la mia vicenda a quel momento negli anni sessanta quando i registi collaboravano tra vari paesi, unendo (come faccio sempre nel mio lavoro) le piccole storie a quelle grandi.

Consideri il restauro «Les Mains libres» come parte del tuo progetto, come un intervento artistico?
Assolutamente, e adesso dobbiamo farlo circolare. È un film che appartiene agli studi postcoloniali, anche gli studenti devono vederlo. La condivisione è importante per me, bisogna trasmettere la storia, la memoria. Nel mio lavoro ho sempre ascoltato e poi riraccontato.