Da Hosni Mubarak ad Abdel Fattah al-Sisi. Ovvero, da un ufficiale militare a un altro, all’interno di un contesto che è rimasto chiaramente autoritario. Da questo punto di vista, sembra proprio che la rivoluzione egiziana del 2011 sia passata senza lasciar traccia alcuna, fallendo soprattutto nel produrre quel cambiamento sociale e politico che la rivolta di massa con epicentro in piazza Tahrir al Cairo sembrava aver reso possibile.

Per la verità, se una differenza tra i due regimi sopramenzionati esiste questa deve essere individuata nel grado decisamente più elevato di repressione e chiusura di qualsiasi spazio di dissenso che caratterizza la fase attuale.

Simili considerazioni hanno finito per alimentare una farsesca riabilitazione di Mubarak, spesso presentato anche dalla stampa italiana nei termini di un padre severo ma sostanzialmente giusto, e impedito di cogliere le due più importanti trasformazioni intervenute: la profonda riconfigurazione dei rapporti di forza all’interno della classe dominante e il mutamento delle coscienze di vasti settori delle classi subalterne sulla scia del processo rivoluzionario.

Il regime di Mubarak si basava su tre principali centri di potere: la presidenza, il partito e il ministero dell’interno. Questa architettura era alla base dell’implicita alleanza tra una borghesia compradora e le forze armate che aveva guidato l’Egitto a partire dalla liberalizzazione economica (Infitah) voluta da Sadat nel 1974 e ancor di più dopo la sterzata neoliberista di Mubarak nei primi anni ’90. In maniera graduale, questa borghesia improduttiva e dipendente dallo Stato aveva conquistato le redini del partito di regime e, a partire dal 2004, il governo, relegando i militari in una posizione secondaria Nella coalizione.

La rivoluzione del 2011 ha letteralmente frantumato il quadro. Dopo appena 18 giorni di proteste, il presidente Mubarak era costretto alle dimissioni, le forze di polizia erano fisicamente sconfitte e il partito di regime era imploso. In una simile situazione, l’esercito ha assunto in prima persona la guida della transizione con la finalità di proteggere i propri interessi e il sistema nel suo complesso.

Il successivo colpo di stato del 3 luglio 2013 guidato da al-Sisi ha messo fine alla fase rivoluzionaria, portando alla rapida instaurazione di un nuovo regime. Questo al momento si differenzia da quello di Mubarak per tre principali fattori: l’assoluta centralità delle forze armate che hanno penetrato ogni aspetto della vita politica, sociale ed economica del paese; il ruolo subordinato occupato dalla borghesia; e l’assenza di un partito che possa mediare i contrasti all’interno della coalizione dominante e fornire un canale di collegamento tra il potere e i cittadini.

Al livello della società, dopo l’ubriacatura del golpe il consenso popolare di al-Sisi si è rapidamente sgretolato. La retorica fatta di proclami e di mega-progetti si scontra sempre di più con i fallimenti sociali ed economici del regime. Le misure di austerità hanno peggiorato sensibilmente il livello di vita del ceto medio e delle classi subalterne, che hanno pagato duramente il prezzo dei pacchetti di riforme imposte dal Fondo monetario.

La paura di uno «scenario siriano» è l’unico freno all’esplosione conclamata del conflitto sociale, che pure non si è mai del tutto spento in questi anni. L’inattesa ondata di proteste dello scorso settembre ha dimostrato una volta di più quanto fragili siano le fondamenta del regime, poggiate come sono su un malcontento latente, soffocato solo dalla repressione.

Ma questo settembre ha provato anche che le masse sono pronte a rialzare la testa. E soprattutto ora sono ancora più consapevoli che al-Sisi, come Mubarak, è solo l’apice di un sistema.