«La guerra è finita», sostengono i Talebani, ma per gli afghani non c’è pace e la branca locale dello Stato islamico rivendica una strage. Ieri, venerdì di preghiera, un attentatore suicida si è fatto saltare in aria nella moschea Gozar-e Sayed Abad di Kunduz, città settentrionale dell’Afghanistan.

Il bilancio, ancora parziale, parla di almeno 43 morti e più di 100 feriti. È destinato a salire, anche se i Talebani preferiscono evitare di aggiornarlo: l’attentato colpisce gli sciiti, minoranza in un Paese a maggioranza sunnita, ma colpisce anche il nuovo Emirato islamico d’Afghanistan, il governo la cui nascita è stata annunciata il 7 settembre, qualche settimana dopo la presa del potere.

Quel giorno il portavoce del movimento, Zabihullah Mujahed, ha dichiarato «la guerra ora è finita», ci sarà pace, sicurezza, stabilità. Poche settimane dopo, il 3 ottobre, mentre nella moschea principale di Kabul Mujahed pregava nella cerimonia funebre per la madre, un attentatore si faceva esplodere all’ingresso. Almeno cinque le vittime.

Tre giorni dopo, a Khost, un altro attentato, in una madrasa, una scuola coranica. L’attentato alla moschea Eidgah di Kabul è stato poi rivendicato dalla Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico (Iskp). Come quello di ieri, parte di una strategia più ampia, che minaccia gli afghani e la stabilità rivendicata dai Talebani.

Oltre agli attentati nelle moschee, e dopo il sanguinoso attentato del 26 agosto all’aeroporto di Kabul (190 afghani e 13 marines Usa uccisi), sono stati circa 30 gli attentati dello Stato islamico, spesso omicidi mirati o piccole esplosioni, tra Jalalabad, le province di Kunar, Parwan, Khost, Kabul. Colpire gli sciiti serve allo Stato islamico per alimentare il fuoco del settarismo, ottenere risorse dai finanziatori dei Paesi sunniti del Golfo, provare ad alimentare sospetto e divisioni all’interno dei Talebani.

I rappresentanti del nuovo governo vantano ogni giorno nuovi e fondamentali operazioni militari contro le cellule dell’Iskp. Secondo Nabi Omari, il governatore della provincia orientale di Khost, confinante con il Pakistan, i Talebani avrebbero sventato un altro attentato, mettendo in prigione 14 membri dell’Iskp, ottenendo importanti informazioni sui prossimi obiettivi.

Anche la vecchia amministrazione di Kabul annunciava grandi operazioni, ma lo Stato islamico ha continuato ad attaccare, colpendo spesso la minoranza sciita e riuscendo a recuperare parte del terreno perduto dopo la battuta d’arresto della fine del 2019, quando venne smantellata la principale roccaforte nel distretto di Achin, nella provincia di Nangharar.

Per arginare la minaccia, che solo due giorni fa il portavoce Mujahed derubricava a «mal di testa», i Talebani hanno adottato la strategia delle sparizioni e degli omicidi mirati dei religiosi salafiti ritenuti troppo vicini allo Stato islamico, complici, collusi, affiliati.

Nella rete, finisce anche chi non ha legami. I Talebani al governo provano a rassicurare gli sciiti e la minoranza hazara: «Garantisco ai nostri fratelli sciiti che siamo pronti a garantire la loro sicurezza», ha dichiarato ieri Dost Mohammad Obaida, vice capo della polizia provinciale di Kunduz. Ma gli hazara denunciano sottrazione di proprietà e terre da parte dei Talebani e un recente rapporto di Amnesty International li accusa di aver ucciso a sangue freddo 13 hazara, tra cui una ragazza, nella provincia di Daykundi.

La strage di ieri alla moschea di Kunduz preoccupa molto gli attori regionali, in primo luogo l’Iran, la repubblica teocratica sciita che condivide con l’Afghanistan un lungo confine, e la Russia, che teme l’ingresso di gruppi jihadisti nelle ex repubbliche sovietiche. E teme anche la duplicità dei Talebani, tanto che il vice ministro degli Esteri Andrei Rudenko ieri ha dichiarato all’agenzia Interfax che «ogni assistenza sarà fornita al Tajikistan», se i Talebani non manterranno la promessa di non attaccare i Paesi vicini. Mosca ha anche annunciato una conferenza in Russia per il 20 ottobre, con i Talebani e la comunità internazionale.

Nel corso dell’ultima conferenza a Mosca, nel marzo scorso, Russia, Usa, Cina e Pakistan invitavano Kabul e i Talebani a negoziare e si dicevano contrari alla rinascita dell’Emirato. I Talebani hanno fatto poi di testa loro.

Come sembrano fare i Paesi donatori: ieri l’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati ha ricordato che del miliardo e 200 milioni di dollari promessi nella conferenza ministeriale del 13 settembre, solo il 30% è arrivato a destinazione. Mentre la crisi umanitaria del Paese si aggrava di giorno in giorno e una delegazione di alto rango dei Talebani è volata a Doha in cerca di consigli.