Le sanzioni economiche non hanno affossato l’economia russa e il Pil del Paese quest’anno potrebbe addirittura crescere. È quanto emerge dall’ultima previsione del Fondo monetario internazionale che ha rivisto le stime di gennaio, già positive per il gigante eurasiatico dello 0,3%, portandole fino allo 0,7% in più rispetto all’anno passato. Se confermato, il dato si attesterebbe su un valore maggiore a quello di molti Paesi europei, incluse Germania e Gran Bretagna, e simile ad altri come Francia o Italia.

IL TEMA PERÒ è molto dibattuto e sta creando divisioni tra gli analisti internazionali. Innanzitutto, c’è il problema delle fonti utilizzate per tracciare le curve di crescita. A prescindere dalla guerra in corso in Ucraina, la Banca centrale russa ha smesso da tempo di pubblicare molti dei dati fondamentali a comporre le stime.

Lo stesso istituto finanziario russo aveva previsto per il 2023 una recessione dello 0,8% a inizio anno e di recente ha rivisto le sue stime portandole a +0,1/0,2%. Il che sarebbe comunque inferiore, e di molto, a quanto annunciato dal Fmi.

A titolo di paragone si noti che per l’Ocse quest’anno il Pil russo farà registrare una flessione del 2,5%; per la Banca mondiale siamo a -0,2%, mentre per alcuni consulenti russi consultati dall’agenzia Interfax la percentuale negativa sarebbe dell’1,1%.

Inoltre, è importante notare che lo stesso Fmi ad aprile 2022, due mesi dopo l’invasione, aveva previsto che l’economia di Mosca sarebbe crollata dell’8,5% nel 2022 e del 2,3% quest’anno. Le ultime correzioni, invece, hanno portato i valori ad attestarsi su una contrazione del 2,2% per l’anno passato e a un’inversione di tendenza per l’anno in corso. In che modo, quindi, interpretare questa discrasia?

A FINE APRILE il settimanale britannico The Economist la spiegava così: «La burocrazia russa ha messo a segno tre imprese negli ultimi 14 mesi. Ha trovato il modo di resistere alla raffica di sanzioni occidentali. Ha fornito abbastanza uomini e materiale per alimentare l’invasione russa. E tutto questo è stato fatto senza un brusco calo del tenore di vita, che potrebbe provocare disordini popolari».

E poi c’è la questione delle sanzioni che, secondo l’Economist, non hanno avuto l’effetto devastante annunciato. Intanto perché non hanno colpito gli oligarchi in modo effettivo. Anzi, in alcuni casi, questi sono stati messi nelle condizioni di appropriarsi degli asset lasciati dalle aziende occidentali costrette a lasciare la Russia. In secondo luogo si citano gli spiragli (volutamente) lasciati aperti dalle misure coercitive, come il mantenimento di Gazprombank all’interno del sistema Swift nonostante le importazioni di gas dalla sua holding Gazprom si siano interrotte.

A PROPOSITO di scambi commerciali è dirimente il fatto che il blocco all’importazione di idrocarburi dalla Russia non ha coinciso con un affossamento del settore energetico: diversi stati, soprattutto Cina e India (che registra un incremento di 20 volte rispetto agli anni passati), hanno aumentato significativamente gli acquisti. Stando ad alcune inchieste pubblicate di recente, alcuni di questi Paesi (il New York Times cita l’India) comprano petrolio per poi rivenderlo in Occidente, invalidando così il meccanismo delle sanzioni.

Ma è vero anche il contrario: il Cremlino usa Paesi amici (Turchia, Armenia, Kazakistan ad esempio) per acquistare beni altrimenti proibiti dalle sanzioni, soprattutto apparecchiature elettroniche, mezzi da lavoro e dispositivi informatici.

TUTTAVIA, in questo quadro che sembrerebbe invalidare di fatto ogni efficacia per le sanzioni occidentali alla Russia c’è un punto debole. Sempre l’Economist lo spiega molto semplicemente: «L’economia russa può sopportare una guerra lunga, ma non una guerra più intensa» e «qualsiasi tentativo di intensificare il conflitto annullerebbe inevitabilmente questi successi».

Inoltre ci sono gli effetti a lungo termine, dei quali le stime economiche dell’Fmi non tengono conto ma che, secondo diversi analisti economici occidentali, finiranno irrimediabilmente per operare una separazione netta tra la Russia e una parte significativa di mondo oltre a rendere il suo sistema socio-economico «fragilissimo».

Una piccola scossa, come la necessità di una nuova mobilitazione o la necessità di aumentare le spese militari per conquistare davvero il Donbass potrebbe repentinamente rompere quest’equilibrio e far precipitare il Paese in una recessione simile a quella degli anni ’90.