Un viaggio nel tempo attraverso una terra che per gli ebrei ha spesso assunto le sembianze di un «mondo di assenze e silenzi», dove prima di tutto era la loro stessa storia a dover ancora essere raccontata fino in fondo, o meglio narrata di nuovo, questa volta senza omettere nulla. Obiettivo dichiarato, far luce su una vicenda nella quale si sono intrecciate indissolubilmente utopia e tragica realtà, le speranze di costruire una società nuova e il ritorno di un odio antico che stava solo attingendo a un rinnovato guardaroba. Eppure, sarebbe sbagliato considerare Dove gli ebrei non ci sono di Masha Gessen (Giuntina, pp. 220, euro 18, traduzione di Rosanella Volponi) come una «semplice», seppur straordinaria, indagine storica. Quella che la 54enne giornalista, scrittrice e attivista per i diritti Lgbt compie attraverso il libro è infatti prima di tutto una ricerca all’interno di se stessa, del proprio rapporto con l’identità ebraica e con la Russia, il Paese dove è nata e cresciuta e dove, dopo un primo trasferimento con la famiglia negli Stati Uniti da adolescente, ha scelto di tornare negli anni Novanta, per essere poi costretta a lasciarlo definitivamente, alla volta di New York dove collabora ora con alcune delle maggiori testate americane, a causa della sua opposizione al regime di Putin.

AUTRICE DI INCHIESTE significative come Putin. L’uomo senza volto (Bompiani, 2012), I fratelli Tsarnaev (Carbonio, 2017), sui responsabili dell’attentato alla maratona di Boston del 2013 e Il futuro è storia (Sellerio, 2019), che ricostruisce le tappe della «rivoluzione conservatrice» da tempo in atto a Mosca, Gessen svolge con delicatezza il nastro della memoria personale per portarci nell’intimità della sua casa moscovita alla fine degli anni Settanta, tra le inquietudini di una famiglia laica per cui essere ebrei assumeva un qualche significato quasi esclusivamente attraverso lo sguardo degli altri, il più delle volte ostile, e le discriminazioni istituzionali. «Il mio essere ebrea consisteva nell’esperienza di essere emarginata e picchiata e nello spettro di non essere ammessa all’università. Una volta che trovai la mia gente che girovagava fuori della sinagoga (non entravamo mai dentro) alcune vecchie canzoni yiddish e un paio di canzoni ebraiche più nuove si aggiunsero alla mia non-storia».
Ma come era stato possibile che nelle terre, quelle dell’ex Impero russo, dove un tempo viveva la maggior parte degli ebrei del mondo e dove, questa volta nell’Urss, ancora alla fine della Seconda guerra mondiale risiedevano milioni di ebrei, il silenzio e l’oblio avessero preso il posto di una storia ricca e molteplice? Per quale via una vasta cultura e così tante vicende individuali erano state rimpiazzate dall’assenza di una qualche narrazione collettiva, di un discorso pubblico che non si fermasse, quando presente, sulla soglia delle dimore di chi conservava ricordi personali?

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RISPONDERE A TALI QUESITI all’inizio degli anni Ottanta per una dodicenne Masha Gessen significava tentare di comprendere a cosa e a quale luogo dare il nome di «casa», quando e verso dove si sarebbe dovuto scegliere di mettersi in viaggio. Ma anche dopo la fine dell’Urss, e i cambiamenti nel frattempo intervenuti, per l’intellettuale e attivista che stava per lasciare di nuovo la Russia, questa volta vittima dell’ondata reazionaria incarnata da Putin e della minaccia che alle famiglie Lgbt fossero tolti per legge i figli, quella domanda continuava a non trovare che risposte parziali e insoddisfacenti. L’itinerario che conduceva al Birobidžan muoveva anche da questa inquietudine.
Seppur con un approccio che nel corso degli anni avrebbe conosciuto non poche contraddizioni e passi indietro, dopo la Rivoluzione del 1917 nell’Urss si pensò di affrontare il tema delle «nazionalità» ereditate dall’Impero zarista garantendo forme di autogoverno almeno parziale alle diverse comunità, costituite in Repubbliche. Per gli ebrei, che nell’era dei Romanov, caratterizzata da sanguinosi e ricorrenti pogrom e da un antisemitismo di Stato, vivevano principalmente nella cosiddetta «Zona di residenza» comprendente le regioni del confine occidentale dell’Impero – corrispondenti alle attuali Lituania, Bielorussia, Polonia, Moldavia, Ucraina e parti della Russia occidentale – si individuò il territorio compreso tra i fiumi Bira e Bidžan, nell’estremo oriente dell’Urss, nei pressi della Manciuria contesa con Cina e Giappone.

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È IN QUESTA ZONA a tratti paludosa e segnata da ripidi rilievi rocciosi, dove gli inverni erano lunghi e rigidi e le estati alternavano caldo torrido ad acquazzoni torrenziali che si immaginò fin dalla metà degli anni Venti, ben prima della nascita dello Stato di Israele, che potesse sorgere la Repubblica ebraica del Birobidžan, destinata ad ospitare, secondo i progetti ufficiali, nell’arco di un decennio oltre un milione di «pionieri». Come recitava la denominazione ufficiale dell’Ozet, acronimo del Comitato per l’insediamento degli ebrei lavoratori della terra creato allo scopo dai vertici sovietici, la nascita della prima entità statuale ebraica della modernità si sarebbe prodotta nel segno dell’agricoltura. Per la «conservazione della sua nazionalità» bisognava che «una parte significativa della popolazione (ebraica)» si trasformasse in «popolazione agricola», aveva del resto annunciato nel 1926 il capo dello Stato sovietico Michail Kalinin. E, malgrado le evidenti difficoltà, il progetto aveva conquistato anche i cuori di un gruppo di intellettuali, scrittori e poeti che vi avevano visto la possibilità non solo di offrire «una patria» agli ebrei, non solo russi, che anche dopo la Rivoluzione continuavano a soffrire a causa dell’ostilità di una parte della popolazione, ma di assicurare un nuovo sviluppo alla cultura e alle lettere ebraiche attraverso l’uso dell’yiddish, che della nuova Repubblica sarebbe stata la lingua ufficiale. E che da idioma di famiglia negli Shtetl d’Europa stava diventando il marchio per raccontare la contraddittoria e convulsa vita quotidiana dell’epoca. In questo senso, agli occhi di figure come David Bergelson, lo scrittore nato in Ucraina e vissuto tra Mosca e Berlino di cui Gessen ricostruisce minuziosamente il percorso e l’opera, la sfida che si stava giocando nel Birobidžan rappresentava la possibilità di dare piena rappresentazione ad un ebraismo secolare che definisse se stesso, e la propria identità nazionale, intorno alla lingua e alla cultura, rifiutando a un tempo l’ipotesi del sionismo di un «ritorno» in Palestina e la chiusura su di sé delle comunità ortodosse.

Sarà così che tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta decine di migliaia di famiglie ebree sceglieranno di trasferirsi in quella regione, «cacciati dagli shtetlach dalla povertà, dalla fame e dalla paura». Immaginavano di trasformare l’yiddish, «quella che era stata la lingua degli ebrei indigenti» nella lingua universale dell’ebraismo del futuro, «la base di una cultura ebraica del XX secolo, dopo l’oppressione».
Le cose non sarebbero però andate così. Se il progetto della Repubblica del Birobidžan aveva accompagnato la fase della costruzione dello Stato sovietico, tra la metà degli anni Trenta e la fine del decennio seguente le purghe staliniane e il ritorno ad un uso pubblico delle retoriche antisemite colpì molti membri ebrei del Partito comunità e dell’élite culturale del Paese. Nel 1952, dopo tre anni di processo, detenzione e torture, dopo che i vertici sovietici avevano lanciato una campagna contro «le idee cosmopolite dannose» chiudendo giornali e riviste yiddish e sciogliendo le associazioni dei letterati ebrei, anche Bergelson e altri dodici anziani scrittori che avevano animato il progetto del Birobidžan furono condannati alla pena capitale per «tradimento» e fucilati. Nel 1955, morto Stalin da due anni, la Corte suprema dell’Urss stabilì che quelle accuse non avevano avuto in realtà «alcuna sostanza».

PER DECENNI, la data del 12 agosto, quando erano avvenute le esecuzioni, «fu conosciuta e commemorata in molte comunità ebraiche di tutto il mondo come la Notte dei poeti assassinati». Quando nel 2009 Masha Gessen si recò nel Birobidžan incontrò l’ultimo pioniere in grado di parlare ancora l’yiddish. «Oltre mezzo secolo prima quelli come lui avevano viaggiato fino all’estremità della terra per costruire quella casa, e la storia della fine del loro sogno, nella sua crudele assurdità, può essere letta come la quintessenza della storia degli ebrei di Russia». Un grande silenzio a cui questo libro cerca di restituire la voce.