Era il 20 gennaio quando il corpo di Rafael Murua Manriquez, direttore della radio ambientalista e femminista Kashana, è stato trovato senza vita alle porte di Santa Rosalia, piccola comunità della Bassa California del Sud. Un mese dopo, il 20 febbraio, Samir Flores Soberanes, fondatore dell’emittente comunitaria Radio Amiltzinko, è stato ucciso da tre sicari fuori dalla sua abitazione, nello stato di Morelos. Il 2 maggio Telésforo Santiago Enríquez, conduttore della radio indigena Estéreo Cafetal, una delle voci delle lotte di Oaxaca, è stato assassinato nel municipio di San Agustín Loxicha.

DEGLI 11 GIORNALISTI UCCISI dall’inizio del 2019 in Messico, 3 erano conduttori di radio comunitarie. Tre voci silenziate, con gli abitanti di alcune delle zone più remote del Messico privati di quella che Artículo 19, ong che si occupa di libertà di espressione e diritto all’informazione, definisce «una prospettiva diversa dalla realtà ufficiale».

È anche per questo che Samir Flores Soberanes è diventato un simbolo delle lotte indigene. Il fondatore di Radio Amiltinzko era il portavoce del movimento che si batte contro la costruzione di un gasdotto e due centrali termoelettriche 100 km a sud di Città del Messico: da un lato i rischi di far passare le condutture del gas attraverso la zona vulcanica del Popocatépetl, dall’altro le ripercussioni sull’ambiente e sulle coltivazioni. Un’opera, il Proyecto Integral Morelos (Pim), la cui costruzione aveva tra i critici Andrés Manuel López Obrador.

Con la salita alla presidenza del Messico, però, AMLO è passato dall’altra parte. Oggi nella comunità di Huexca chiunque ricorda un suo famoso discorso del 4 maggio 2014 nella vicina cittadina di Tepoztlán, quando promise una strenua «difesa di questi popoli». Samir è stato ucciso poche ore dopo aver partecipato a un’assemblea sull’opera, alla presenza di autorità dei governi statale e federale.

A CITTÀ DEL MESSICO incontriamo David Peña: è il coordinatore giuridico del Gruppo di azione per i diritti umani e la giustizia sociale e segue il caso nelle vesti di avvocato difensore della famiglia del giornalista. «In quell’assemblea – spiega -, a pochi giorni dalla consulta in cui la comunità si sarebbe pronunciata sul Pim, Samir prende la parola e attacca le autorità, denunciando le conseguenze che la “termo” avrà sui territori».

La mattina seguente tre persone bussano a casa di Samir. Ad aprire la porta è la madre. «I tre restano a otto, dieci metri dall’ingresso», dice ancora Peña. Samir esce «e saluta uno di loro, o almeno lo riconosce». Cammina con loro lungo il sentiero polveroso che porta all’abitazione. Lo colpiscono, «ci sono segni di colluttazione sul terreno», poi gli sparano alla testa, uccidendolo sul colpo. «La famiglia esce di corsa. Trova Samir in terra e i tre in fuga».

Questo, in sette mesi, è tutto quello che le indagini sono riuscite a ricostruire. «Una delle linee di indagine che stiamo seguendo è l’opposizione di Samir al progetto – aggiunge il legale -. Stiamo esaminando i video degli incontri pubblici sulla “termo” per capire se tra i partecipanti ci fossero persone estranee alla comunità» e «abbiamo individuato almeno due soggetti».

MA DAGLI INQUIRENTI nessuna risposta. «Non c’è da sorprendersi in un paese che ha un indice di impunità dei delitti che si commettono tra il 95 e il 97% ». Una media che sale fino al 99,1% quando la vittima è un giornalista o un attivista per i diritti umani. Samir era entrambe le cose. «Qui siamo nati e qui moriremo» ripeteva questo agricoltore che ha scelto la radio per informare la sua comunità su ogni aspetto della lotta entrata nel vivo il 28 agosto 2016 con la nascita del presidio permanente all’esterno della centrale termoelettrica di Huexca. «Samir portava avanti un processo di partecipazione comunitaria permanente – spiega Peña – e le uniche minacce subite provenivano dalle autorità. Nella sua vicenda non abbiamo trovato nessuna traccia della criminalità organizzata. Le indagini sono state molto lente. La sensazione è che siano state portate avanti con timore per gli interessi in ballo».

LA BATTAGLIA per la verità sul caso Samir riguarda sia la sfera dei diritti umani, sia quella per l’informazione come sottolinea Ana Cristina Ruelas, direttrice di Artículo 19, che incontriamo nella sede della ong, nella colonia Chapultepec di Città del Messico. «In questo paese la maggior parte dei cronisti sotto minaccia non ha una formazione da giornalista ma quotidianamente fornisce notizie alla gente. Anche gli attivisti spesso diventano giornalisti perché chi lavora per i grandi media non si interessa a ciò che accade in piccole realtà campensine. Samir era un giornalista indigeno che sapeva comunicare con la popolazione locale nella loro lingua».

In queste realtà, come ricorda l’avvocato Peña, le radio comunitarie nascono «per una necessità, quella di difendere le proprie terre, la propria gente, recuperando la funzione sociale dell’informazione».

OGGI LA FIGURA DI SAMIR è diventata un’icona, a lui è intitolato il nuovo levantamento zapatista, quello di metà agosto, con la creazione in Chiapas di altri sette caracoles e quattro municipi autonomi. «Samir è un simbolo» conferma Azalia Hernandez, responsabile della comunicazione del Frayba, il centro dei diritti umani intitolato a Fray Bartolomé de las Casas con sede a San Cristóbal. La incontriamo nella sede dell’associazione in una giornata che promette pioggia. «I mezzi di comunicazione comunitari e in particolare le radio – dice – hanno rotto lo storico cerchio mediatico». Per questo sono sotto attacco. «In questo paese, dove c’è un controllo molto forte sulla comunicazione, da qualche anno sono nati progetti molto importanti di giornalismo indipendente, soprattutto online. Ma sono ancora le radio comunitarie gli organi di informazione più seguiti nei territori indigeni in lotta».