Mentre i virologi sembrano divisi, medici e studiosi dei sistemi sanitari sono d’accordo: il modello sanitario lombardo va riformato. Il grande imputato si chiama «legge 23». È la riforma sanitaria regionale voluta dal governatore Maroni nel 2015. «La riforma ha dimostrato le sue criticità: tutto è stato concentrato sull’ospedale e il territorio è stato privato della possibilità di intervenire. Sono mancati i dispositivi di protezione e non siamo potuti recarci dai pazienti», dice Gianluigi Spata, presidente dell’Ordine dei medici della Lombardia. «La legge 23 ha delegato l’erogazione dei servizi sanitari agli ospedali.

La prevenzione invece è stata accentrata nelle Agenzie di Tutela della Salute (Ats), che devono vigilare su un territorio enorme». L’Ats della Città metropolitana di Milano vigila su 3 milioni di abitanti. «Le vecchie ASL, cancellate prima della riforma, erano molto più vicine alla comunità». L’Ordine ha duramente polemizzato con la Regione, accusandola di aver abbandonato il territorio. Siete stati ascoltati? «Marco Trivelli, il nuovo dg della sanità lombarda, sembra aver recepito la necessità di una maggiore integrazione tra territorio e ospedale. Mi piacerebbe che questi discorsi si concretizzassero».

Gli fa eco Guido Marinoni, medico di base a Bergamo e presidente del locale ordine dei medici. Lui il «mostro» lo ha visto da vicinissimo. «I problemi che segnalavamo in aprile non sono stati risolti. Le mascherine ci sono perché sono tornate sul mercato, non per merito della regione. Ma il problema è organizzare l’autunno». Teme la seconda ondata? «Non necessariamente» spiega. «L’influenza farà tornare i casi di febbre. Per ognuno bisognerà attivare l’isolamento e il tampone, e i dipartimenti di igiene e prevenzione si dovranno riorganizzare. Se i casi saranno tanti, e non tutti Covid, il sistema sarà ingestibile. Si rischia di tornare in lockdown magari senza averne bisogno». Le cose da fare sono tante. «Le vaccinazioni anti-influenzali, per diminuire il numero di persone con la febbre. Da fare rispettando il distanziamento sociale: serviranno locali, turnazioni, personale infermieristico e amministrativo». Una macchina organizzativa difficile da mettere in piedi, con i servizi territoriali sguarniti.

Ma la riforma del 2015 è solo un pezzo del «modello lombardo», che affonda le radici nell’era Formigoni e allo squilibrio tra territorio e ospedale affianca quello tra sanità pubblica e privata. «Il sistema sanitario lombardo è in realtà una rete di erogatori di servizi. Queste strutture possono essere pubbliche o private e sono tutte sullo stesso piano» spiega Angelo Barbato, ricercatore all’istituto «Mario Negri» di Milano e presidente del Forum per il Diritto alla Salute, una delle organizzazioni che ha promosso le manifestazioni di ieri. «La logica è quella di un quasi-mercato. Il cittadino è libero di rivolgersi ai servizi scegliendo il prodotto che ritiene migliore». Il «quasi» si riferisce al fatto che non tutta la sanità può essere monetizzata come una merce. «In particolare si avvicina a questo modello per quanto riguarda le prestazioni ospedaliere, come gli interventi chirurgici e le visite specialistiche. Sono i servizi che possono essere quantificati in modo più facile (attraverso i «diagnosis-related groups» o Drg, un sistema di misurazione dei costi delle prestazioni a carico dello stato, ndr). È infatti solo il 60% della sanità ospedaliera lombarda è pubblica, e il resto è privato».

E quello che non rientra nei drg? «I servizi di sanità pubblica erogati dai servizi territoriali, come i servizi di igiene e prevenzione o la medicina del lavoro, non sono quantificabili. Infatti hanno subito una riduzione di risorse. Di sanità pubblica sono rimasti solo i medici di base, ma si tratta di professionisti in convenzione. Al massimo hanno qualche incentivo per campagne specifiche di sanità pubblica».

La riforma Maroni ha sancito che le Agenzie di Tutela della Salute si limitano a «comprare» servizi sanitari stipulando contratti anche con i privati. «È per questo che i privati hanno avuto un ruolo marginale durante la pandemia» spiega Barbato «le loro prestazioni sono regolate dai contratti». Ma il mito dell’eccellenza sanitaria lombarda? «Esiste, ma si concentra nelle nicchie che il privato ritiene programmabili e remunerative. Poi ci sono le distorsioni, cioè le prestazioni dette «non tariffate» che la regione eroga per alcune funzioni specifiche come la didattica universitaria o la ricerca. E sono quelle che portarono alle inchieste su Formigoni».