Pavel Gubarev ha 31 anni. È laureato in storia ed è un ex manager di un’azienda multimediale. Da qualche mese è anche il governatore della Repubblica Popolare di Donetsk. Secondo i suoi detrattori, si è «autoproclamato» tale; per i suoi fedelissimi si è meritato il titolo quando, dopo la Majdan di Kiev, ha guidato una folla ad occupare i palazzi governativi di Donetsk. Nel marzo scorso è stato arrestato dai servizi segreti ucraini, con l’accusa di «separatismo».

Per lui si sono mossi, subito, la Russia e il partito Nazional bolscevico di Limonov. Un paio di mesi dopo l’arresto, a maggio, Gubarev è ricomparso. Libero, dopo essere stato scambiato con alcuni prigionieri dell’esercito, catturati dai ribelli. È uno dei simboli della resistenza del Donbass contro il governo di Kiev. Filorusso, panslavista, già fondatore del Partito Progressista socialista ucraino e membro del Russian National Unity, un gruppo paramilitare filorusso, Gubarev è divenuto celebre solo negli ultimi mesi. Dopo la liberazione, ha fondato il partito Nuova Russia. Alla presentazione della nuova formazione politica, c’erano anche personaggi di dubbio gusto come il teorico di destra Alexander Dugin.

Tanto che le organizzazioni di sinistra del Donbass hanno sottolineato la deriva di alcuni esponenti e gruppi della regione, denunciando come la permanenza di elementi di destra tanto a Kiev, quanto seppure in modo minore tra le fila dei ribelli, costituisca una delle principali ragioni della durezza e lunghezza del conflitto in corso in Ucraina. Gubarev è emerso dal nulla, hanno scritto i media occidentali. A dire il vero, però, a Donetsk Pasha Gubarev, era già noto da tempo.

Il capopopolo social

La prima volta che ho visto una sua foto, è stata quando ho trovato il suo profilo Facebook su internet. Era in divisa: una specie di uniforme antica che ricordava i tempi zaristi. Mostrine, tinte scure, occhi scavati, l’ho immaginato alla stregua di un aiutante di Rasputin. Il post successivo ospitava una foto di Stalin, quello seguente augurava «un buon compleanno» ad Assad, quello ancora dopo inchiodava un kalashnikov sullo sfondo di una bandiera della Repubblica popolare di Donetsk. In un video pubblicato di recente, si allena in un parco all’aperto, maglietta nera, una certa pancetta in rilievo e pantaloncini corti. Alcuni commentatori ironizzano sul suo parlare di sé in terza persona, una volta diventato «famoso».

Altri insinuavano legami sospetti già quando faceva il pubblicitario, presupponendo qualche oligarca dietro la sua ascesa. Infine c’è una foto simbolo dell’Ucraina di oggi: Gubarev con Igor Strelkov, il «capo» dell’esercito dei ribelli del Donbass.

A questo proposito, bisogna pur specificare che l’aria che tira nelle zone dei separatisti, tra influenza di Mosca e volontà indipendentiste, deve essere pesante. Cercando su internet, si trovano parecchi commenti ironici, quando non velenosi su Gubarev. Non al livello di Strelkov, cui qualche nemico ha fatto lo scherzo di pubblicare un breve romanzo on line (si trova su Amazon, costa 1,99 euro), dal titolo «Sucking Strelkov», nel quale il leader dei combattenti del Donbass, si aggira per la Crimea alla ricerca di comparse e attori di film porno, cui accoppiarsi. Gubarev questo trattamento – ancora – non l’ha ricevuto.

Quando Pavel (che è anche ex pugile, come da tradizione ucraina a quanto pare, se pensiamo anche a Klitscho nuovi sindaco di Kiev e già impegnato sulle barricate della Majdan) è stato arrestato dai servizi segreti della capitale ucraina, con l’accusa di separatismo, Mosca ha protestato vivacemente presso il governo di Yatseniuk, mentre nelle regioni orientali, folle guidata dalla moglie chiedevano a gran voce la sua liberazione.

Gubarev – quando era in carcere – ha cominciato anche uno sciopero della fame, fino alla liberazione. Secondo Kiev, e parte della stampa internazionale, è un nazionalista filorusso, vicino a formazioni neonaziste. Per gli ucraini delle regioni orientali, è una sorta di capopolo capace di guidare l’assalto ai palazzi governativi del Donbass, guadagnandosi sul campo i galloni di «governatore».

L’emersione dalla Storia

In ogni anfratto della storia, specie quando composto da combattimenti e battaglie, si nascondono personaggi che trovano un proprio momento di acme, pur senza superare i confini territoriali della zona in cui sono impegnati. Sono figure che costruiscono un proprio mito, incarnando le contraddizioni che si insinuano in ogni guerra, capaci di annusare un afflato globale, salvo poi tornare nell’oblio che si riserva agli eventi considerati, ormai, in secondo piano. O più in generale mediocri, come l’epoca che percorrono.

La guerra in Ucraina è colma di questi personaggi, il cui fascino è tanto brutale negli aspetti marziali, quanto modesta nella proposizione politica, nell’approccio teorico. Nei meandri della guerra in Ucraina, siamo stati abituati fin da subito a non fidarci di quanto potevamo scorgere dalle grancasse mediatiche messe in campo. La Majdan, che ha portato alla fine del regno di Yanukovich, è partita come una protesta che ricordava le rivoluzioni colorate, composta anche dai movimenti lgbt, alcune frange della sinistra ucraina e trasformata poi in una protesta descritta come «filo europeista».

La Majdan si è offerta alla stampa occidentale, che in un mondo sempre più contrassegnato dalla difficoltà di leggere gli eventi, ha proposto la precotta lettura dei buoni da una parte e dei cattivi dall’altra.
I buoni erano i manifestanti, i cattivi, via via, hanno cambiato forma, nome, appartenenza e caratteristiche. Prima Yanukovich, poi i Berkut, la temibile polizia antisommossa, poi Putin, poi i ribelli filorussi, infine, di nuovo, i russi, i soldati e i militari in soccorso ai «terroristi» dell’est. Il capo dei cattivi, ovviamente, Putin, le cui ambizioni di potenza non sono alla pari con quelle del più presentabile Obama.

A Kiev ben presto, però, (a pensare male si potrebbe dire: quando Usa e Nato hanno deciso di dare una scossa decisiva alla situazione) quella folla in protesta è finita nelle mani dei gruppi di estrema destra, capaci di controllare militarmente la piazza e determinare l’esito della rivolta, per ricomparire infine sotto forma di «battaglioni di volontari» nelle regioni orientali a combattere contro i ribelli «filorussi».

Nella lettura binaria è cascata anche una certa retorica più vicino a noi: l’equazione è semplice, del resto. Se a Kiev ci sono i neonazisti, nel Donbass devono esserci per forza gli antifascisti. Per certi versi, però, le formazioni che si sono organizzate per difendere il Donbass dal pugno di ferro nazionalista di Kiev, sono molto più varie. C’è stata una forma di resistenza e il tentativo di organizzazione da parte di formazioni di sinistra, che ancora recentemente hanno chiesto a gran voce il disimpegno americano dai fatti ucraini e la caduta del governo di destra di Kiev (che ha messo fuori legge il partito comunista).

Queste formazioni sono capaci di muovere persone e sensibilizzare sulla necessità di una soluzione pacifica e autonomista, ma ben presto il gioco si è fatto disumano, molto più grande, globale e anche tra i filorussi sono cominciati a spuntare personaggi che hanno complicato la scena, soprattutto alla sinistra delle regioni orientali.

L’uomo di marketing

Tra queste personalità c’è lui, Pavel Gubarev, un’espressione, tra tante, del mondo contemporaneo. L’uomo di marketing, l’imprenditore, il pubblicitario che si fa soldato, guerriero e poi politico, rappresentante del popolo. L’ex prodigio dell’internet locale, è stato così catapultato nella realtà della guerra ucraina. Gubarev, un «self(proclamed)man» dei nostri giorni, è stato pizzicato dalla voglia di rendersi partecipe di un evento storico. Prima della rivolta delle regioni orientali, le sue foto su internet lo ritraevano vestito da Babbo Natale. «Mi piace far ridere i bambini», dirà, una volta smessi i panni del pubblicitario e imbracciato il fucile.

Non ha granché il fisico, ha un volto stempiato e nella progressione fotografica offerta dai media, specie dopo l’arresto, appare piuttosto emaciato. In ogni caso, pare uno che sa come farsi rispettare. Ha saputo conquistare la scena, nonostante le brevi biografie non autorizzate diano alla sua ascesa un collegamento piuttosto preciso con Mosca. Quando è stato arrestato, la sua famiglia, moglie e due figli e una figlia, hanno trovato il salvacondotto decisivo, per Mosca. La cosa non è piaciuta a tanti sinceri oppositori di Kiev: un conto è l’autonomia, un’altra essere manipolati da Mosca.

E i collegamenti di Gubarev con il Cremlino, del resto, erano conosciuti da tutti. Gubarev ha studiato all’università di Donetsk, è sempre stato vicino a gruppi nazionalisti russi. È un panslavista e ha avuto il merito di mettersi alla testa di qualcosa che forse neanche lui pensava potesse diventare così rilevante. Del resto è lui che ha guidato l’occupazione dei palazzi governativi, entrando ben presto in rotta di collisione con il governatore mandato da Kiev a stabilire l’ordine. Alla mediaticità della sua fama, ha partecipato anche la moglie, nominata ministro degli Esteri della Repubblica popolare di Donetsk.

Una coppia conosciuta nella regione, come testimoniato dai pareri raccolti da Keith Gessen in un articolo su London Review of Books. Gubarev viene chiamato Pasha, il piccolo, l’umile. E Pasha si è fatto governatore e chissà cos’altro in futuro, vista la potenziale autonomia della sua nuova Patria, la Novorossia.