Nel gennaio 2006 Giovanni Sartori partecipò ad un Convegno sulle riforme istituzionali organizzato dal nostro Ateneo, l’Università di Padova. In una memorabile relazione, ricostruì quello che, a suo dire, costituiva uno «stupidario delle riforme», ossia un insieme di termini, evocati continuamente nel dibattito, che anziché facilitare la discussione contribuivano a renderla evanescente. Nella costellazione di tali termini splendeva il «novitismo», ossia la tendenza a considerare ogni novità migliore rispetto a tutto quello che l’aveva preceduta. Era un termine capace di descrivere la tendenza che avrebbe dominato il decennio successivo.
Un’operazione simile dovrebbe essere condotta con riguardo ai concetti-trappola che incatenano il dibattito sulla sinistra. Proviamo ad elencare qualche termine di cui dovremmo imparare a diffidare quando compare nella discussione. È un esercizio che rivolgiamo in primo luogo a noi stessi, ma che vogliamo condividere con tutti coloro che si riconoscono nel frastagliato profilo della sinistra. Proviamo ad elencare qualche termine di cui dovremmo imparare a diffidare quando compare nella discussione.

Nostalgia. Secondo molti analisti la sinistra sarebbe affetta da nostalgia verso un tempo perduto (il Novecento) le cui condizioni sono oggi irriproducibili. Si tratta di un mantra molto utilizzato, rivolto soprattutto a rimuovere l’eredità storica delle forze che si ispirano al socialismo. È vero che il consenso si costruisce sulla base delle speranze rivolte al futuro; tuttavia, non dovremmo dimenticare mai che in politica l’utilizzo della nostalgia può essere un’arma potente. Ciò è ben evidenziato dalla destra, molto efficace nel richiamare il ricordo idealizzato di una società del passato, in cui non si dovevano affrontare fenomeni complessi quali la globalizzazione o l’immigrazione. Chi non evoca un’idea della storia che vuole interpretare, difficilmente risulta credibile per il cammino futuro.

Modernità. Parimenti, l’invito di molti consiste nell’edificare una sinistra «finalmente moderna». Non si tratta di un invito molto originale. Anche questo è un leitmotiv attivo da decenni e anche in questo caso l’obiettivo polemico è costituito dal patrimonio di valori delle forze che si rifanno al socialismo. Tuttavia, l’approdo della modernizzazione della sinistra oggi non appare più molto chiaro. Pertanto, ci permettiamo di chiedere: è più moderno Tony Blair, l’alfiere della terza via che ha concluso il proprio ciclo, oppure Jeremy Corbyn che sta cercando di ricostruire il Labour su basi neo-socialiste?

Il confronto con la modernità ritorna anche nel dibattito relativo al post-modernismo. In questo caso, la critica che si rivolge alla sinistra è quella di essersi adattata al conflitto tipico del modo di produzione fordista, caratteristico del Novecento, e di essere rimasta spiazzata dal mutamento del modo di produzione e dalla globalizzazione. Anche in questo caso, ci sono elementi seri di riflessione al riguardo, ma a patto di non rimanere intrappolati da semplificazioni eccessive. Ad esempio, stiamo analizzando in queste settimane il crollo delle roccaforti rosse in Toscana, dove il modo di produzione fordista è sempre stato minoritario e la sinistra ha potuto avvalersi di un consenso di massa sin dalle prime elezioni negli anni Quaranta, guidando la transizione da una società prevalentemente agricola a sistemi economici locali basati sulla piccola e media impresa.

Post-materialismo. Una critica speculare all’essere rimasti orfani del fordismo è quella di aver tralasciato le questioni materiali, quali lavoro e salario, a favore di questioni post-materiali, quali l’ambiente, la pace o l’identità di genere. È una tesi che si sviluppa dal celebre libro di Ronald Inglehart La rivoluzione silenziosa, secondo cui dagli anni Sessanta sarebbe in corso una rivoluzione nelle culture politiche occidentali, in seguito all’irruzione sulla ribalta di una generazione concentrata su questioni relative allo stile di vita individuale. Tale tesi andrebbe meglio contestualizzata. Almeno in Italia, il Sessantotto ha intrecciato le questioni post-materialiste con quelle materialiste: l’impegno per sanare situazioni quali le fogne a cielo aperto nelle borgate romane non ha molto di post-materialista. Così come la saldatura della mobilitazione studentesca con quella operaia.

Forse la grande lezione che deve trarre la sinistra dalla sua storia è che nei tempi migliori è stata capace di intrecciare fra loro e rappresentare questioni molto diverse, riuscendo a comporle in un universo di senso comune. Forse è da qui che si deve ripartire, come stanno provando a fare, nel mondo anglosassone, il Labour e alcuni esponenti del Partito democratico americano.