Lo scorso aprile, mentre mezzo mondo era ancora in lockdown, la Cina portava il 5G in cima all’Everest. L’impresa, che ha coinciso con i 60 anni dalla prima scalata di Sir Edmund Percival Hillary, ha visto la trinità delle telecomunicazioni cinesi China Mobile, China Unicom e China Telecom costruire – in tandem con Huawei – le prime stazioni wireless fino al campo base avanzato, circa 6.500 metri sul livello del mare.

Secondo gli addetti ai lavori, l’arrivo della rete di quinta generazione sul Tetto del Mondo aiuterà la ricerca scientifica, il monitoraggio meteorologico, la comunicazione e le operazioni di salvataggio. Ma per comprendere appieno il ciclopico progetto occorre percorrere migliaia di chilometri verso est fino a piazza Tian’anmen, il cuore politico della Cina, dove il 4 marzo il potentissimo Comitato permanente del Politburo si è riunito per formulare un piano economico post-Covid riassumibile in tre caratteri: xin jijian («nuove infrastrutture»). «Nuove», quindi non (solo) autostrade, ponti e ferrovie come all’indomani della crisi finanziaria globale, bensì data center, soluzioni per la trasmissione di energia ad altissima tensione, stazioni di ricarica per veicoli elettrici, applicazioni di intelligenza artificiale, Internet of Things (IoT), e, ovviamente, il 5G. Il perché è presto detto. Dal 2008 a oggi si è costruito fin troppo e spesso dove non serviva. Occorre qualcosa che abbia un impatto più immediato sull’economia reale.

Di xin jijian si parla fin dal dicembre 2018, ma la consacrazione è arrivata solo a maggio, quando il parlamento ha stanziato per le «nuove infrastrutture» una spesa di circa 1.400 miliardi di dollari, di cui 30 miliardi verranno sborsati entro l’anno proprio per il 5G. Se tutto andrà come da programma, nel 2025, la Cina avrà 4,6 milioni di stazioni base, rispetto alle attuali 200mila. Sono numeri che richiederanno un impiego di risorse umane e industriali potenzialmente in grado di riattivare la crescita, crollata al 3,2% a causa della pandemia.

Secondo la China Academy of Information and Communications Technology, il business legato al 5G creerà oltre 8 milioni di posti di lavoro in dieci anni, senza contare l’indotto generato dalle sue molteplici applicazioni – pensiamo alle smart city (la Cina ne ha in cantiere oltre 500) – mentre entro il 2025 dovrebbe generare una produzione lorda diretta di circa 1.510 miliardi di dollari. Non per nulla la mappa virtuale della rete ci porta nelle aree più arretrate del paese: il Gansu e il Guizhou sono tra le province in testa per numero di stazioni in costruzione.

Ci sono poi considerazioni di natura strategica. Investire nelle xin jijian vuol dire rilanciare con discrezione il «Made in China 2025», il controverso progetto votato allo sviluppo «in-house» di alta tecnologia dietro cui Washington intravede mire egemoniche. Con Covid e la minaccia di un decoupling si capisce come il piano abbia assunto anche maggiore rilevanza agli occhi dei leader cinesi.

A questo punto, rimane un solo dubbio. Chi pagherà? Secondo il magazine Caixin, proprio come nel 2008, il rischio è ancora una volta che gli stimoli finiscano per gravare sulle tasche delle amministrazioni locali. E il debito sale.