Il piano della ripresa europea [Recovery fund, ribattezzato «Prossima generazione Europa»] non prevede la sorveglianza sui conti da parte di una «Troika» e l’«austerità». «Capisco – ha detto il Commissario Ue all’economia Paolo Gentiloni ieri a Bruxelles – che abbiamo dietro di noi delle esperienze e sia difficile immaginare come il Semestre europeo possa funzionare in modo diverso» rispetto al passato. Quella prevista non è una condizionalità da Troika».

LE «CONDIZIONALITÀ» ci sono, ma sono diverse. Almeno il 60% delle «sovvenzioni» a fondo perduto pari a 80 miliardi di euro (91 sono i prestiti a lunga scadenza e tasso agevolato, in totale 173 su 750 miliardi) che arriveranno in Italia saranno impegnate nella «crescita», «resilienza», «coesione sociale e territoriale», «transizione verde e digitale» entro la fine del 2022, e non oltre il 2024. La Commissione valuterà il grado di applicazione delle «riforme» rispetto agli obiettivi stabiliti dal governo nel piano nazionale delle riforme presentato ad aprile e allegato alla legge di bilancio in ottobre. Se le scadenze non saranno rispettate, o il progetto non sarà realizzato, allora l’Italia – e gli altri paesi – perderanno i fondi. Per il vicepresidente della Commissione Dombrovskis questo approccio «non sarà un pesante esercizio burocratico» da parte della Commissione, ma ha evidenziato che spetta ai governi assumere la responsabilità di rispettare i tempi stabiliti. «Se non implementeranno gli obiettivi, perderanno i soldi di una rata» ha detto.

NON È DETTO che le nuove condizionalità saranno meno stringenti di quelle fissate dal patto di «stabilità e crescita» ora sospeso a causa della crisi indotta dal Covid 19. Non è escluso che, nel frattempo, saranno rese «flessibili» almeno quanto lo sono state quelle del «patto». In fondo, in Europa tutto quello che sembra «oggettivo» è materia di negoziato ed è altamente discrezionale. Così come sono state esposte ieri da Gentiloni e Dombrovskis sono tuttavia molto stringenti e rischiano di mettere in seria difficoltà le labili capacità italiane di usare i fondi europei. Investire 80 miliardi in due anni a queste condizioni potrebbe rivelarsi una sfida troppo ambiziosa per il governo italiano. Per non parlare dei prestiti. Il rischio è perdere questi soldi, o non saperli usare.

SONO ALMENO DUE i conflitti all’orizzonte: il primo è quello sulla destinazione reale dei fondi. Ieri Gentiloni ha liquidato l’idea di usare una parte dei fondi per tagliare le tasse, proposto da importanti esponenti di primo piano del governo: «È prematuro alzare bandierine su questo o quell’obiettivo» ha detto. È prevedibile anche un’altra spinta contro la «burocrazia». Una retorica neoliberale usata per derogare alle leggi, incentivare le imprese, ingrassare i grandi patrimoni, sospendere e leggi. Sta accadendo sul codice degli appalti che Italia Viva e Cinque Stelle vogliono sospendere nel prossimo «decreto semplificazioni». Queste lotte contro la «burocrazia» (una delle riforme indicate dalla Commissione come quella della «giustizia civile» favorevole alle imprese) non portano di solito a una «semplificazione», ma a complicazioni elefantiache e a rischi per la legalità. È uno dei paradossi della «gestione per obiettivi», la politica della Commissione Ue basata sui risultati raggiunti a fronte di obiettivi prefissati. È diffusa nell’amministrazione pubblica e nella gestione del personale nelle aziende. La necessità di spendere, senza avere idea di come, può aumentare i disastri.

IN QUESTA CORNICE fluida gli obiettivi della Commissione sulla transizione al «Green New Deal» restano indeterminati. Ieri sono state ribadite alcune suggestioni su un sistema di scambio di quote di emission. In Italia gli stessi propositi si sono arenati ancora prima di partire. Il governo aveva prospettato il taglio di 19 miliardi in sussidi dannosi per l’ambiente. Sulla «transizione al digitale» Bruxelles ha presentato un piano non del tutto soddisfacente e si propone di adottare una «web tax» continentale sulle multinazionali. Gli importi finanzierebbero l’’aumento del bilancio e, dunque, anche l’emissione dei bond di debito comune per il «Recovery fund». La proposta, al momento, spetta all’Ocse. Se fallirà, la Commissione formulerà la propria nel 2021. E poi dovrà essere adottata dagli Stati.

FUORI da questa discussione resta la nuova questione sociale: come finanziare gli ammortizzatori sociali, dato che i fondi «Sure» sono inadeguati? E perché non prevedere un reddito minimo garantito o di base contro il raddoppio delle povertà? Non ci sono «riforme» su questo.