Se le più importanti banche del pianeta fossero un Paese, sarebbero il primo inquinatore a livello mondiale. Questa l’analisi che emerge da «Senza controllo, le emissioni di CO2 delle più grandi banche mondiali», il nuovo report pubblicato da ReCommon uscito in occasione del G7 Finanza in corso a Stresa. Secondo la ricerca commissionata dall’associazione, sulla base delle informazioni disponibili alla fine del 2022, le emissioni di gas serra delle banche di sistema dei paesi del G7 ammonterebbero a 2,7 miliardi di tonnellate, più delle emissioni di Italia, Germania, Regno Unito e Francia messe insieme (un totale di «solo» 2 miliardi di tonnellate). Nonostante rappresentino solo il 6% dei prestiti analizzati dal rapporto, i settori ad alta intensità di CO2 sono responsabili di oltre la metà delle emissioni totali finanziate. Nello specifico, parliamo delle cosiddette «emissioni finanziate, ossia le emissioni di gas serra associate ai finanziamenti e agli investimenti di un istituto finanziario, ai settori industriali, i progetti e le corporation che le banche decidono di sostenere».

SEBBENE UN NUMERO CRESCENTE di banche fornisca i dati relativi al clima, la maggior parte di esse divulga solo parametri di intensità e non rende note le emissioni assolute, il che rende difficile avere una valutazione completa ed oggettiva della impronta carbonica delle attività finanziarie delle banche. Alla luce di questo, come sottolineano i ricercatori che hanno curato la metodologia alla base della ricerca, è molto importante tenere in considerazione che il dato delle emissioni rilevato dal rapporto è molto sottostimato a causa della mancanza di trasparenza e delle scarse pratiche di divulgazione da parte degli istituti di credito, in modo particolare quelli statunitensi e giapponesi come JPMorgan, Citigroup, Mizuho e SMFG.

NON È UN CASO CHE PROPRIO LE BANCHE di Usa e Giappone, anche stando ai dati del recente studio internazionale Banking on Climate Chaos compilato tra gli altri dalle Ong Banktrack, Urgewald e Reclaim Finance, siano ai primi posti a livello mondiale per ammontare globale di finanziamenti all’industria fossile. In modo particolare sono molto munifiche verso compagnie che stanno espandendo i propri piani di produzione di petrolio e gas, cui sono stati destinati 3.300 miliardi di dollari. Mentre nella classifica assoluta primeggiano le banche a stelle e strisce JP Morgan, Citigroup e Bank of America, quella relativa ai nuovi progetti fossili vede, oltre all’immancabile capofila JP Morgan, piazzarsi sul podio le nipponiche Mizuho Financial e Mitsubishi UFJ Financial. Il balzo degli istituti di credito di Tokyo si spiega con la loro esposizione nel settore del gas naturale liquefatto (Gnl), in crescita soprattutto negli USA (48% del Gnl importato nell’Unione europea nel 2023 arriva da lì) dopo l’inizio della guerra in Ucraina.

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LE BANCHE EUROPEE, PERÒ, non ricoprono una posizione di rincalzo. La britannica Barclays, che segue a ruota le omologhe giapponesi e statunitensi, è stata di recente protagonista di una dura contestazione da parte di gruppi ambientalisti perché accusata di fuorviare il pubblico e gli investitori per aver inquadrato come ambientalmente «sostenibile» il supporto finanziario all’italiana Eni, impegnata invece in un’espansione di un’attività basata sull’uso e lo sfruttamento di combustibili fossili. Il finanziamento di Barclays al cane a sei zampe ammonta a quattro miliardi di euro. Bnp Paribas, sebbene impegnata a non sostenere nuovi progetti estrattivi, è l’istituto di credito francese più «amico» del comparto fossile.

IN GENERALE LA COSIDDETTA «sporca dozzina», le banche mondiale che più hanno foraggiato l’industria dei combustibili fossili dall’Accordo di Parigi ad oggi con oltre 3.340 miliardi di dollari, corrispondono a istituti di credito dei paesi del G7 analizzati nello studio di ReCommon. Purtroppo il trend dei finanziamenti, legato a quello delle emissioni, è in crescita e non deve stupire che dopo una stagione di apparente maggiore consapevolezza ambientale da parte delle banche, ci si trovi in una situazione di stallo, se non addirittura di arretramento. Paradigmatica al riguardo la condotta di Bank of America, che negli ultimi tempi ha cancellato le sue politiche che escludevano le trivellazioni nell’Artico e le centrali termiche a carbone, non ha fissato obiettivi di emissioni assolute a breve termine e ha abbandonato gli Equator Principles, una serie di linee guida per la valutazione del rischio sociale e ambientale delle attività finanziarie. Volgendo lo sguardo al contesto italiano, tra i soggetti più coinvolti nel business fossile non poteva mancare la più importante banca del nostro Paese, Intesa Sanpaolo, che dall’Accordo di Parigi ad oggi ha sostenuto il settore con 81,6 miliardi di dollari. Solo nel 2023 parliamo di 8,6 miliardi di dollari di investimenti e 7,5 miliardi di dollari di finanziamenti. Esemplificativo che Intesa Sanpaolo sia presente, tramite un finanziamento della controllata Ubi Banca che ammonta a 160 milioni di dollari, nel controverso progetto di Eni di estrazione di gas offshore in Mozambico Coral South LNG.

L’istituto di credito torinese non ha chiarito se sia coinvolta anche negli altri progetti Rovuma e Coral North LNG. Di certo è molto esposta sul fronte del gas naturale liquefatto a stelle e strisce nell’area del Golfo del Messico, con 4,8 miliardi di dollari di finanziamenti concessi dal 2016 a oggi. Nel luglio del 2023, Intesa Sanpaolo ha accordato un prestito di ben 1,08 miliardi di dollari per la realizzazione del mega terminal di export di gas naturale liquefatto texano Rio Grande LNG.

VISTI I NUMERI, COME PUÒ ESSERE affrontato un problema così serio? Una delle soluzioni a questa deriva fossile sarebbe prevedere degli standard obbligatori per banche ed aziende di divulgazione dettagliata sulle loro emissioni di gas serra, sulle loro esposizioni ai rischi climatici e relative strategie di comunicazione. Il G7 nicchia e di certo la guida italiana non sta contribuendo a smuovere le acque. Addirittura la necessità di avere dei piani di transizione climatica, presente nel comunicato finale del G7 di Sapporo dell’anno scorso, è sparita dal testo del comunicato del G7 Clima, Energia e ambiente di Torino dello scorso aprile, dove a fare gli onori di casa era il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin.

MA UN FILO DI SPERANZA RIMANE. La presidenza brasiliana del G20 potrebbe compiere qualche passo avanti, anche grazie al ruolo delle banche centrali, le quali da tempo stanno chiedendo maggiore coordinamento e definizione di standard internazionali. Una mossa che la dice tutta su quanto servano regole e limiti alla finanza fossile.