L’atto terroristico di Manchester ha enormi implicazioni alla vigilia delle elezioni politiche, il prossimo otto giugno. Il fatto che finora non ci siano stati strascichi di rappresaglie della destra razzista è un ottimo segno. Ma ancora non si sa se la data stessa delle elezioni sarà confermata. Un loro rinvio pare comunque improbabile, vista la comune determinazione a non alterare il flusso normale della quotidianità. L’ultima volta che è accaduta una cosa simile fu quando Tony Blair posticipò le urne di un mese per una quarantena rurale contro la diffusione del morbo della mucca pazza, nelle politiche del 2001.

Ma la decisione – molto rara – di innalzare il rischio attentati al massimo significa un sostanziale mutamento della situazione. Chi ha militarizzato l’Irlanda del Nord per anni ed è uso spedire soldati ai quattro angoli del globo, è comprensibilmente restio a fare la stessa cosa nella madrepatria. In più, l’uso dei militari per le strade è del tutto alieno alla tradizione politico-costituzionale liberale di un paese la cui formidabile stabilità ha sempre reso l’opzione non necessaria e che mai come ora ci tiene a differenziarsi dalla Francia, dove lo stato di emergenza autorizza potenzialmente ogni sorta di abuso da parte della polizia con la scusa della sicurezza.

I militari per strada col dito sul grilletto sono questione tutt’altro che di lana caprina: la Gran Bretagna è stata orribilmente colpita al cuore del suo soft power, la cultura pop, e alla vigilia di un’affollata stagione di concerti e festival all’aperto.

Come notato da The Guardian, la formulazione esatta dell’annuncio con cui Theresa May ha comunicato l’uso di truppe nelle strade implica non la conoscenza precisa dell’esistenza di una cellula terroristica pronta a colpire, bensì il timore che tale attacco si verifichi.

È un territorio quanto mai scivoloso, dove la necessità sacrosanta di proteggere i cittadini e il timore più che fondato di un secondo possibile attacco si mescolano con i tatticismi politici. Nessun partito, tranne l’Ukip, che si è espresso per la riapertura della campagna elettorale, ha finora commentato la decisione governativa per evitare di politicizzarla, perlomeno ufficialmente.

Il Labour di Corbyn – che ha in Manchester la sua città storica – ha ricominciato ieri la campagna anche se solo a livello locale, i conservatori non l’anno ancora fatto. Ma il tempismo dell’attentato ha messo in moto la mente infaticabile dei cospirazionisti, che insinuano una regia occulta – le cosiddette false flag – per garantire una vittoria elettorale ai conservatori, la cui campagna elettorale è stata finora disastrosa. Il fatto che la mamma dei complottisti sia più fertile che mai non autorizza però a dimenticare che, in particolare dopo la pubblicazione dei rispettivi manifesti, il Labour aveva accorciato le distanze dai Tories di una ricca metà e sembrava in corsa per una spettacolare rimonta. È dunque evidente che i Tories traggano giovamento dall’atrocità di Manchester, soprattutto dopo che nei giorni scorsi, per arginare la rimonta, si erano aggrappati alle passate dichiarazioni di solidarietà con l’Ira di Corbyn, qualificandolo come nemico della nazione.

Dunque il rischio che il terrorismo e lo stato emergenziale diventino il cardine di quanto resta di questa campagna elettorale e che il ben noto (in Italia) concetto di unità nazionale finisca per portare acqua al mulino di Theresa May sono più che reali. Da ridicolizzato che era nella sua inane monotonia, lo slogan sulla «leadership forte e stabile» adesso ha tutt’altro peso e significato. E anche l’evolversi delle indagini avrà un ruolo determinante sulle scelte del Paese.