Nel silenzio sordo del mondo, il Burundi è una vittima del caos del clima senza aver minimamente contribuito a determinarlo. I ricchi inquinano e i poveri piangono. Banale ma vero.
Da un lato, gli 11,5 milioni di burundesi hanno la più bassa impronta climatica al mondo: meno di 0,5 tonnellate di gas climalteranti pro capite all’anno (dati Climate Watch). E, ricordava la World Bank pochi mesi fa, vista la sua ridotta taglia demografica il piccolo affollato paese è responsabile di un infimo 0,015 delle emissioni totali planetarie. Del resto la fatica umana è la forza motrice principale, al centro del lavoro e della vita di ogni giorno su quelle ripide colline nella regione dei Grandi Laghi.

Dall’altro lato, il Burundi è – insieme ad altre parti dell’Africa – fra le venti nazioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici secondo l’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni). E’ agli ultimi posti nel Notre Dame Global Adaptation Index, un programma che stima, dal 1995 a oggi, la vulnerabilità di 192 paesi alle «perturbazioni» climatiche. Riuscire a proteggersi dai fenomeni ambientali è una sorta di lusso che richiede risorse, anche se i burundesi si impegnano come possono nella resilienza, per esempio cercando di ripristinare terre degradate.

Negli ultimi tre anni, nel paese le inondazioni hanno provocato oltre 100.000 sfollati. Ormai sono le catastrofi naturali e non gli scontri e le violenze come in passato a provocare spostamenti di popolazione. Anche nel mese di aprile, interi villaggi e quartieri hanno visto la fuga notturna precipitosa degli abitanti. La causa principale è l’innalzamento delle acque del Tanganika, il secondo lago d’Africa per superficie e il secondo al mondo per profondità. Il fenomeno è provocato da vari fattori fra i quali il niño che perturba il regime delle piogge.

In Burundi a far disastri in diverse regioni e a incidere sulla sicurezza alimentare, sui redditi e sulle condizioni di vita è anche la scarsità idrica. Nell’agosto 2020, l’ufficio burundese per la protezione dell’ambiente ha varato il Piano nazionale di lotta alla siccità. Si registra poi la perdita di suolo fertile (decine di milioni di tonnellate all’anno).

«L’adattamento al cambio climatico è la sfida più grande per il nostro paese», ha spiegato all’agenzia Xinhua Samuel Ndayiragije, ispettore generale del ministero dell’ambiente e docente universitario alla facoltà di scienze, ricordando che i settori più colpiti sono «l’agricoltura, l’energia, gli ecosistemi naturali»; «i burundesi, soprattutto i coltivatori, assistono a perturbazioni importanti della pluviometria e devono cercare incessantemente di gestirle senza perdere i raccolti».

Nei prossimi giorni, un giovane burundese parteciperà a Milano ai lavori della conferenza preparatoria della Cop26, che si svolgerà a Glasgow il prossimo novembre. Frequenta un master in sicurezza alimentare e nutrizione comunitaria dopo essersi laureato in ambiente e salute presso l’Istituto nazionale per la salute pubblica. Partecipando nei giorni scorsi a un seminario online, Olivier ha spiegato: «Sono membro della International Student Environment Coalition che opera anche in vari paesi africani. Il mio impegno principale come attivista, in Burundi, è nel campo dell’educazione ambientale e climatica, in particolare nelle scuole, compresa la riforestazione. Sono fiducioso circa i risultati della conferenza sul clima». Malgrado la fiducia, l’attivista ha specificato che il fattore climatico impatta anche sulla produzione agroalimentare in Burundi mettendo in pericolo lo stato della nutrizione e i redditi delle famiglie rurali povere, particolarmente nella critica stagione della soudure, quando finiscono le scorte di cibo e il nuovo raccolto non è ancora pronto.

Le difficoltà economiche e alimentari sono peggiorate dal 2020: benché il Burundi abbia condiviso con l’Africa subsahariana una resilienza al coronavirus che ha stupito i potenti del mondo (registra poche decine di morti ufficiali attribuiti a Covid-19), pesante in termini sociali e di sicurezza alimentare – documenta il Famine Early Warning Systems Network – è stato il prezzo pagato per le misure internazionali antipandemiche e la chiusura precauzionale delle sue frontiere.