I fronti di guerra sono fra loro vicini. Nonostante i ritmi serrati dell’industria armiera, le risorse strategiche non sono mai infinite: ogni munizione antiaerea, ogni proiettile d’artiglieria possono essere lanciati una sola volta. Putin lo sa bene e ci conta: se nei prossimi mesi gli Stati Uniti dovessero impegnarsi ancor di più a sostegno di Israele, il supporto all’Ucraina verrà messo alla prova.

Nell’Ucraina occupata, i russi si dissanguano attorno ad Avdiivka, sacrificando 3.000 uomini e 100 mezzi corazzati in 10 giorni. Eppure, nonostante le munizioni a grappolo, la controffensiva ucraina resta in stallo. Nel tentativo di romperlo, gli Usa hanno infine fornito i missili Atacms, la cui gittata, superiore a quella degli HiMars, punta a far saltare la logistica che regge il fronte russo. L’aviazione russa ha ricevuto un duro colpo, ma la nuova arma è in ritardo: avrebbe avuto un impatto devastante mesi fa, quando le truppe d’occupazione erano vulnerabili, oppure quando le colonne ucraine tentavano la controffensiva e venivano falciate dagli elicotteri di Mosca.

Dagli Usa arriva però la notizia che un grosso stock di proiettili di artiglieria 155mm preparati per l’Ucraina verranno ridiretti su Israele. L’Ucraina non dispone di un’aviazione da guerra al livello israeliano, e dunque dipende maggiormente da queste munizioni.

Mentre Trump, che all’inizio della guerra definiva Putin «un genio», oggi dichiara che con lui presidente né l’Ucraina né Israele si troverebbero sotto attacco, Biden vincola il suo ultimo anno di mandato a un pacchetto da 100 miliardi in aiuto di Ucraina e Israele. La direzione è tracciata, ma perché il dilemma diventi ineludibile è necessario che la logica di guerra si espanda e si approfondisca ulteriormente.

Non siamo arrivati al fondo ancora. Certo, non esiste nulla di peggio delle testimonianze che arrivano dai Kibbutz più progressisti, dove bambini sono stati seviziati e assassinati davanti ai genitori, a cui è stata riservata la stessa sorte; nulla di peggio che vedere i palestinesi di Gaza bersagliati da bombardamenti i cui superstiti, estratti vivi dalle macerie, non trovano acqua.

MA PROVIAMO a proiettare queste logiche di innesco e rappresaglia su scala più ampia. Consideriamo un allargamento al Libano, piagato da una crisi economica senza fine, dove i salari dell’esercito sono ormai pagati da Washington. Ipotizziamo che Netanyahu, invadendo Gaza, aggravi ulteriormente la catastrofe umanitaria, e che al tempo stesso l’esercito israeliano subisca pesanti perdite. È plausibile che a questo punto l’Iran provi ad aprire il fronte al nord: nel sud del Libano la milizia sciita Hezbollah, già temprata al fianco dei lealisti di Assad e dei russi di Wagner, dispone di un numero di razzi di molte volte superiore ad Hamas. Israele si troverebbe dunque esposto a una minaccia esistenziale diretta, e Washington non potrebbe che restare coinvolta in modo ancor più massiccio.

Questa logica di escalation non è profezia: essa è già in atto, iniziando con le milizie filoiraniane lungo le periferie del Medio Oriente. Questo ci dicono i razzi sparati dagli houti yemeniti verso Israele, intercettati dal cacciatorpediniere Usa. Di questo parlano i droni contro le basi Usa in Iraq e Siria (dove si registra anche un ritorno di attività di Daesh). Più avanza il programma nucleare iraniano, e meno Teheran ha bisogno di risparmiare Hezbollah, nato come compensazione per il suo gap strategico.

MENTRE I TALEBANI afghani, in sintonia con i loro fratelli pakistani, ribadiscono il loro altisonante fervore rispetto alla conquista di Gerusalemme, a Gerusalemme la guerra è nelle mani di un leader del quale alti quadri della sicurezza, incluso l’ex capo del Mossad, fino a poco fa ci dicevano che non ci si può fidare. Lo affiancano un ministro degli interni di estrema destra che ha fatto carriera demolendo il processo di pace (si fa riprendere mentre distribuisce armi d’assalto ai coloni in Cisgiordania, dove Hamas non è presente) e un ministro degli esteri che esplicita propositi di annessione («alla fine non solo non ci sarà più Hamas, ma il territorio di Gaza sarà ridotto»).

L’ex capo della Cia, Panetta, ha raccomandato a Israele azioni militari mirate, iniziative volte a stabilire una zona cuscinetto. Israele ha finora mostrato di non voler finire nella trappola che Hamas ha teso a Gaza, prediligendo una tattica per lotti di territorio, pezzo per pezzo. Ma quanto a lungo un governo che poggia su sentimenti così contrastati potrà mantenere la mobilitazione di 300 mila riservisti, mentre si espone ad azioni di guerra sui civili che accendono lo sdegno del mondo?

LA CORSA dell’Occidente al fianco di Israele ha fatto saltare mesi di sforzi diplomatici per tenere il Sud del mondo ancorato al consenso sul fronte ucraino. Improvvisando una protesta che non ha precedenti a Ginevra, la maggioranza dei delegati al Comitato Onu per i Diritti umani l’altro ieri ha voltato le spalle all’Ambasciatrice Usa, Mitchelle Taylor. Davanti alle manifestazioni di protesta che si propagano un po’ ovunque, Washington ha emesso un global travel alert generalizzato.
A trascinare Washington in questo vicolo cieco c’è la destra israeliana, con l’appoggio delle consorelle occidentali che le firmano assegni in bianco. Ci sono le armi che Israele ha fornito agli azeri in chiave anti-iraniana, impiegate per la pulizia etnica degli armeni, con gli Usa che nel vuoto di impegno russo hanno infine minacciato dure sanzioni se Baku proseguirà contro Yerevan. In un intervento incendiario sul canale russo Rt, un prominente membro del Likud, Amir Weitmann, ha definito «terroristi» tutti gli stati che hanno osato chieder conto a Israele della propria condotta bellica (incluse la Giordania e l’Unione africana), avvertendo che la Russia pagherà con la vittoria ucraina il prezzo per aver sostenuto i nemici di Israele.

QUESTA GUERRA opera sullo sfondo di un cambiamento dell’ordine internazionale per il quale non esiste ancora un nome: molte aspiranti potenze regionali fanno valere i propri interessi senza più alcuna remora, mentre gli altri paesi del sud del mondo confidano in questi sviluppi come opportunità per poter contare. Le politiche estere occidentali hanno fallito: l’idea israeliana di fomentare le divisioni intra-palestinesi (lasciando crescere Hamas all’ombra del mito della deterrenza) così da marginalizzarli e poterli ignorare, avvicinando invece i paesi arabi, si è rivelata una pericolosa chimera.

Su una rete tv ucraina in questi giorni raccontavano che l’Ucraina è alleata di Israele, che i bambini ebrei crescono gentili, mentre i bambini palestinesi crescono assetati di sangue, un po’ come i russi. Questa continua, pericolosa produzione di nonsenso alimenta in modo sempre più marchiano le chimere della vittoria promessa, minando il Dna delle democrazie, e portandoci fino a questo baratro. Un cambio di politica estera è imperativo.