La prima denuncia per le violenze subite nel carcere di Parma Rashid Assarag l’ha presentata il 7 gennaio 2011. Cinque anni dopo, la procura parmense non ha ancora trovato certezze e nel dubbio il pm Emanuela Podda chiede al gip l’archiviazione del procedimento contro dieci agenti penitenziari aperto quando, nel settembre 2014, L’Espresso pubblica le registrazioni-choc, effettuate dallo stesso detenuto, delle voci di alcuni agenti che ammettono l’uso di violenze nel carcere. Nulla di strano: la giustizia nel nostro Paese è lenta, si sa, ce lo dice anche la Corte di Strasburgo.

E invece no: «Il 13 novembre 2015 Rashid Assarag è stato a sua volta denunciato per resistenza a pubblico ufficiale perché avrebbe frenato con le mani la sedia a rotelle sulla quale è ormai costretto. E solo venti giorni dopo ha ricevuto dalla procura di Biella la comunicazione di fine indagini. Succede sempre così, con le tante querele ricevute dagli agenti, al contrario di quanto avviene quando Rashid denuncia gli abusi».

Ne ha tante da raccontare, l’avvocato Fabio Anselmo, difensore dell’uomo, attualmente detenuto nel carcere di Torino, che dopo aver perso 18 chili è di nuovo in sciopero della fame di fronte alla richiesta del sostituto procuratore di Parma.

Il pm non contesta le registrazioni degli agenti che ammettono l’uso della violenza nel carcere di Parma e dicono che «se la Costituzione fosse applicata alla lettera», esso «sarebbe chiuso da vent’anni». Allora, quali sono le motivazioni?
Sinceramente non le ho capite. Da un lato si chiede ad Assarag di circostanziare i fatti con nomi e cognomi, pur sapendo che sono passati anni e gli agenti sono privi di identificativi, per poi concludere che i fatti sono dubbi perché non ci sono testimoni a provare le accuse e non si è potuto accertare come Assarag abbia potuto disporre di un registratore (ma nessuno glielo ha mai chiesto). Dall’altro, il pm scrive che quelle frasi registrate «seppur inquietanti, paiono “lezioni di vita carceraria”, più che minacce e affermazioni di supremazia assoluta o negazione dei diritti».

Certo, non vi aspettavate questo…
Ci ha lasciati di sasso. Le indagini almeno andavano fatte. È come con il caso Cucchi: sei anni a litigare sul niente e poi quando sono arrivati Pignatone e Mussarò le indagini sono state fatte davvero e la verità è venuta fuori.

Ma Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, riferisce che già nel 2009 segnalò il caso al sostituto procuratore di Parma «che si attivò».
Non so che tipo di attivazione ci sia stata, so solo che Rashid porta i segni sul suo esile corpo dei pestaggi subiti. Di fatto vive da sei anni in carcere, cambiandone undici, e riporta lesioni invalidanti alle gambe, ai piedi e ad un occhio. Quello che dice è vero perché non viene mai smentito nelle registrazioni. Se poi si sostiene che si tratta di accuse generiche, allora mi rifaccio alla sentenza Torreggiani con la quale Strasburgo ha condannato l’Italia affermando che è impossibile per un detenuto provare i maltrattamenti. Certamente Rashid i maltrattamenti li ha subiti, e anche pesanti e ripetuti. La situazione è gravissima, se tutto ciò che emerge da quelle registrazioni viene qualificato come «lezioni di vita carceraria».

In ogni caso è un’ammissione di come funzionano le cose in un carcere.
A rigore di codice penale, sarebbero già minacce.

La sua prossima mossa?
Faremo ricorso alla Corte europea dei diritti umani, ma nel frattempo speriamo che il Consiglio d’Europa avvii un’ispezione seria, perché Rashid è prova vivente degli abusi subiti, e lo Stato si sta dimostrando totalmente inerte.

Un mese fa il Guardasigilli Orlando ha chiesto al Dap di collaborare per accertare la verità. Secondo lei l’amministrazione penitenziaria si è attivata?
No comment.

Comprensibile. Lei è anche il legale della famiglia Cucchi: se fa un paragone tra i due casi?
Coerentemente con quanto è accaduto a Stefano Cucchi che è stato visto da 140 pubblici ufficiali senza che nessuno si accorgesse delle sue condizioni, credo che in questo caso si vada oltre perché siamo di fronte a fatti che riguardano più carceri. Trovo che il caso di Rashid sia un atto di accusa formidabile nei confronti dell’intero sistema penitenziario italiano. E oltretutto c’è la documentazione di un’affermazione culturale e politica, da parte dei suoi interlocutori, direi inaccettabile. Se quelle cose sono «lezioni di vita carceraria» dobbiamo dedurne che hanno ragione loro.