Sul tavolo della Corte di giustizia dell’Unione Europea c’è un procedimento che deciderà il futuro dei soccorsi ai migranti nel Mediterraneo centrale. Oppone Sea-Watch al ministero delle Infrastrutture italiano e alle capitanerie di porto di Palermo e Porto Empedocle. Se il giudice darà ragione alla Ong sarà più difficile per la Guardia costiera disporre i fermi amministrativi che tra maggio 2020 e agosto 2021 hanno tenuto in porto per lunghi periodi tutte le navi umanitarie. In caso contrario i blocchi potrebbero tornare a essere routine. Le conclusioni dell’avvocato generale Athanasios Rantos, pubblicate ieri, spostano la bilancia verso la seconda ipotesi, sebbene non siano di natura vincolante.

TUTTO NASCE dai fermi subiti dalle navi Sea-Watch 3 e 4 nell’estate 2020. L’Ong li ha impugnati davanti al Tar, che ha chiesto alla Corte Ue di interpretare alcuni punti della direttiva europea 2009/16/Ce. È la norma che disciplina i Port state control (Psc), cioè le ispezioni degli Stati di approdo da cui dipendono i blocchi. Il giudice europeo è chiamato a rispondere a cinque questioni «pregiudiziali», stabilendo i principi che orienteranno quello nazionale. Riguardano: ambito di applicazione della norma, frequenza e intensità dei controlli, fondamento dei fermi. Su quattro punti Rantos ha espresso parere contrario alla linea della Ong e alla lettura suggerita dal Tar siciliano nel procedimento di rinvio.

Primo: è legittimo sottoporre le Sea-Watch ai Psc perché questi possono riguardare anche navi con attività non commerciali, a eccezione di imbarcazioni di Stato o da diporto. Secondo: il «trasporto sistematico» di un numero di persone superiore a quello previsto dalla certificazione può giustificare un’ispezione supplementare. Terzo e quarto: i Psc «dettagliati» possono non limitarsi al controllo dei requisiti formali, ma valutare la conformità della nave alle norme internazionali su sicurezza marittima, protezione dell’ambiente e lavoro.

IL CONFLITTO ha origine dalle differenze tra certificati di classe rilasciati dalle autorità di bandiera, in questo caso la Germania, e attività effettivamente svolte dalle navi umanitarie. Secondo le convenzioni internazionali il dovere superiore di adempiere al soccorso e proteggere la vita umana in mare permette di derogare ad alcune delle norme che le autorità italiane ritengono violate. Per la Guardia costiera, infatti, queste eccezioni non valgono quando i soccorsi sono realizzati in maniera sistematica. Il problema di fondo è che non esiste una classe navale specifica per le Ong. Queste sono intervenute nel Mediterraneo centrale nel 2014, dopo la fine della missione Mare Nostrum. Il diritto internazionale, o quello dei paesi membri, non ha recepito la novità. Anche perché riguarda un numero contenuto di imbarcazioni: al momento 11.

È questo il punto, il quinto, su cui le conclusioni dell’avvocato generale si allontanano dalla prassi della Guardia costiera. Secondo Rantos lo Stato di approdo è tenuto a indicare «sulla base di quale normativa debbano essere determinati i requisiti o le prescrizioni la cui violazione è rilevata e quali correzioni o rettifiche siano richieste per garantire il rispetto di tale normativa». È il principio della certezza del diritto, che in questa vicenda è finito spesso sott’acqua.

IN DIVERSI PROCEDIMENTI contro le Ong è emerso che normative in materia non ne esistono. Né in Italia, né in Europa. Tanto meno in Germania o negli altri stati di bandiera. Alcune novità sono state introdotte da poco con due circolari del Comando generale delle capitanerie di porto: definiscono criteri stringenti per le navi adibite al «salvataggio» (categoria che non corrisponde del tutto a quella di «soccorso»). La giurisdizione è sulle imbarcazioni italiane, ma si potrebbe configurare un nuovo standard a cui quelle straniere risulterebbero inferiori. A questo punto potrebbero ricominciare i blocchi o si arriverebbe a definire le caratteristiche da soddisfare per evitarli. Ammesso che queste siano sostenibili e possano valere senza regole europee. Ma qui siamo nel campo delle ipotesi.

Di certo c’è che la palla passa ai giudici: in un paio di mesi dovranno prendere una decisione da cui dipenderà la vita di migliaia di persone.