Il grande pasticcio dell’equo compenso per i lavoratori autonomi ieri è stato arricchito dalla bocciatura dell’Autorità garante della concorrenza. Il principio di una remunerazione adeguata per tutte le partite Iva delle professioni ordinistiche e senza albi, introdotto nel decreto fiscale collegato alla legge di bilancio e ora in discussione alla Camera, è stato respinto perché «reintroduce di fatto i minimi tariffari, con l’effetto di ostacolare la concorrenza di prezzo tra professionisti nelle relazioni commerciali». La norma sarebbe in contro-tendenza rispetto al «processo di liberalizzazione delle professioni in atto da oltre un decennio».

L’impianto liberista dell’Antitrust è confermato dall’idea per cui l’aggregazione tra studi professionali generata dall’entrata dei capitali nel lavoro autonomo professionale sia un antidoto agli «squilibri contrattuali» che penalizzano i «newcomer», le partite Iva giovani, quelle povere e vulnerabili economicamente. L’idea – presente nella riforma delle professioni (legge 4/2013, governo Monti) e nella legge sulla concorrenza 124/2017) – associa alla creazione di «elevate economie di scala» la possibilità di tutelare «la qualità della prestazione». Per l’Antitrust l’equo compenso non è «giustificato da un motivo imperativo di interesse generale, né risponde al principio di proporzionalità perché elimina alla radice il confronto concorrenziale».

La situazione è surreale. La norma afferma il principio di un equo compenso, da applicare in particolare alla pubblica amministrazione abituata a conferire incarichi a titolo gratuito, ma al momento non è applicabile a tutti. Fa riferimento ai parametri fissati dai decreti ministeriali categoria per categoria. Tali parametri valgono solo per le professioni che hanno un ordine, non per quelle che non hanno un albo o per i freelance che lavorano nel privato a stretto contatto con le piccole e medie imprese: all’incirca 2 milioni di persone. Sul punto esistono anche altre interpretazioni, in una babele di voci che si rincorrono da quando il ministro di giustizia Orlando ha deciso di impugnare la norma bandiera sull’equo compenso per i soli avvocati.

Il parere inviato dall’Antitrust ai presidenti delle Camere Boldrini e Grasso e a quello del Consiglio Gentiloni, mina alla base il principio generale stabilito con grande fatica: proteggere il lavoro autonomo dalla P.A., dalla banche e dai grandi studi professionali, i principali attori dello sfruttamento e della coazione al lavoro gratuito. È l’esito prevedibile, e non ancora definitivo, della confusione esistente tra equo compenso e minimi tariffari, un problema che alimenta discussioni ormai teologiche. Il tariffario è l’elenco dei prezzi di beni o servizi fissati da monopolisti, da autorità pubbliche, da un contratto collettivo o un ordine professionale. L’equo compenso si riferisce invece a una prestazione di lavoro e stabilisce una soglia minima del compenso, spesso commisurato a un contratto di lavoro nazionale, per tutelare i diritti del lavoratore. La distinzione, giuridicamente chiara, non lo è nella norma contestata dall’Antitrust.

A sua volta, l’authority confonde sintomaticamente il lavoro (autonomo) con l’impresa, i diritti con la concorrenza, un problema ricorrente nella storia del lavoro autonomo considerato sinonimo del «capitale» e non della «forza lavoro». Dal Pd (Gribaudo e Ermini) a Sinistra Italiana (Fassina), passando per il presidente della Commissione lavoro al Senato (Sacconi) e alla Camera (Damiano) sono arrivate le denunce contro la «mortificazione dei professionisti», la «svalutazione del lavoro» e il «lavoro gratuito».