Centinaia di persone hanno bloccato anche ieri le strade principali di Sarajevo, mentre le manifestazioni continuano a Tuzla e in molte città del paese. Le richieste dei dimostranti sono quelle di un ricambio della classe politica (dimissioni), costituzione di un governo tecnico e rilascio delle persone arrestate durante gli scontri dei giorni scorsi. Il manifesto degli operai e cittadini del cantone di Tuzla chiede ai dimostranti di non abbandonare le strade ma di mantenere l’ordine pubblico, collaborando con polizia e protezione civile (la polizia a Tuzla in alcuni casi si è schierata con i dimostranti), di annullare i contratti di privatizzazione delle 5 ditte la cui situazione ha dato origine alle proteste (Dita, Polihem, Poliolhem, Gumara e Konjuh) e di «restituire le fabbriche ai lavoratori riavviando la produzione dove possibile».

I manifestanti si stanno organizzando in assemblee di cittadini e cittadine (Plenum) in diverse città. A Sarajevo, dove ieri anche i lavoratori dei trasporti hanno annunciato che si sarebbero uniti alle proteste, il primo Plenum è stato convocato per oggi pomeriggio presso il Centro per la Decontaminazione Culturale. Il punto più avanzato delle proteste sembra restare Tuzla, per la chiarezza delle richieste rivolte alle istituzioni e le concrete ipotesi di realizzazione. I social network svolgono in queste ore un ruolo decisivo nel sostenere le mobilitazioni e far circolare l’informazione. Alcuni portali, come «Bosnia-Herzegovina Protest Files», sono stati creati ex novo per pubblicare le richieste dei dimostranti, i comunicati di sostegno che giungono dal resto della regione, le analisi e gli interventi di intellettuali e artisti.

A Prijedor e Bijeljina, in Republika Srpska (RS), una delle due entità in cui la Bosnia Erzegovina è divisa dagli accordi di Dayton che nel 1995 hanno posto fine alla guerra, le manifestazioni sono state accompagnate da contro manifestazioni, di sostegno al governo. I contro-manifestanti di Bijeljina inneggiavano a Ratko Mladic, ex generale dell’esercito serbo bosniaco sotto processo all’Aja per genocidio e crimini di guerra, incitando gli altri ad «andarsene a vivere a Sarajevo».

E il presidente della RS, Milorad Dodik, ha continuato a sostenere che le proteste sono un fenomeno bosniaco musulmano, e che il loro vero obiettivo è quello di destabilizzare la parte serba del paese. I principali media dell’entità, incluso Glas Sprske, hanno appoggiato questa tesi alimentando un generale sentimento di insicurezza.

Srdjan Puhalo, un attivista che ha partecipato alle proteste in RS, ha dato voce al sentimento di paranoia etnica diffuso per cercare di limitare il diffondersi delle proteste dichiarando al portale informativo Birn che «(purtroppo in RS) è più facile essere povero e affamato, piuttosto che essere considerato un traditore». Sulla stessa linea l’associazione dei veterani della Republika Srpska, che criticando Dodik ha rilasciato una dichiarazione nella quale chiede alle autorità di indagare «sulle privatizzazioni criminali e di portare alla sbarra i magnati che hanno creato imperi nel nostro paese al prezzo della sofferenza dei lavoratori, manipolando tutti noi».

I leader di alcuni fra i principali partiti della Federazione invece, incluso il partito socialdemocratico Sdp e l’Sda di Bakir Izetbegovic, cercano di rispondere alle richieste di dimissioni proponendo elezioni anticipate. Difficilmente però una nuova tornata elettorale potrebbe cambiare la situazione. Quella della Bosnia Erzegovina non è solamente la versione balcanica della crisi che da anni viviamo in tutta Europa. È anche una crisi di sistema, il sistema etnico di Dayton, che antepone i diritti dei gruppi nazionali a quelli dei singoli cittadini: è servito a fermare la guerra, ma non funziona più. www.balcanicaucaso.org