Il nuovo film di Lucas Belvaux – nelle sale italiane da domani – tenta di raccontare l’avanzata tranquilla del nuovo Fn di Marine Le Pen. Ma che cosa vuol dire fare un film su un partito di estrema destra il quale si presenta sulla scena politica con un’atteggiamento egemonico? La strada è seminata di trappole. La prima è quella del film sociologico. La seconda è quella del complotto. La terza è quella del romanzo politico.

Invece di evitarle, Belvaux ci si infila a testa bassa. Il film sociologico penetra, passando per una serie di figure, nell’insurgenza di un mostro altrimenti incomprensibile. Siamo in una cittadina ex-industriale del nord, tra Lille et Lens, che la crisi ha profondamente colpito. Il personaggio principale è l’infermiera Pauline (l’ottima Emile Dequenne), figlia di un metalmeccanico comunista. Molto amata in città, Pauline viene scelta da un dirigente del partito per rappresentare l’unione popolare per la Francia, il nuovo movimento che riprende, modernizzandolo, il vecchio partito fascista.

Il complotto appare quasi subito. Il movimento che si presenta come rinnovato nel volto gentile di Agnès (ogni riferimento a Marine, figlia di Jean-Marie Le Pen è assolutamente non fortuito) è in realtà sempre lo stesso partito eversivo del padre. Il terzo film, il romanzo, tiene i primi due. Pauline è al tempo stesso attirata dal dottore che la recluta, dai suoi modi garbati non meno che dalla potenza simbolica che la sua superiorità di classe le ispira (e alla quale il geniale André Dussolier offre una bonimia spudoratamente furba). Ma è anche sedotta da un suo coetaneao, che è tutt’altro: proletario, istintivo, selvaggio. Ecco che la passione amorosa diventa un modo per legare insieme la sociologia e il complotto. Ecco che l’amore diventa un modo per conoscere: in entrambi i casi, la passione tradita rivela infine l’essenza nascosta delle cose, e segnatamente il filo nero che unisce la potenza studiata del borghese alla violenza cieca del proletario.

Abbiamo fatto il giro. Ma non abbiamo detto in che maniera questi codici di genere, che a raccontarli appaiono estremamente rozzi, serbino una vera domanda politica. Che cosa seduce nell’estrema destra ? Domanda al tempo stesso politica e cinematografica. Che cosa ci permette di fare dell’estrema destra un film ?Non sono le singole scene a produrre questa riflessione : poco riuscita quella del comizio di Agnès. Impeccabili tutte quelle con Dussolier. Buona quella del confronto tra il padre comunista e la figlia che decide di candidarsi. Il punto interrogativo è nel movimento, che non è, o non solo il passare da un genere all’altro, ma anche il fatto che ogni situazione (in particolare quelle di dominio) possieda un suo movimento interno – come nella scena allo stadio, dove il tifo e le braccia tese sembrano dire una cosa e il suo contrario.

Belvaux si muove su due gambe diverse: una avanza meccanicamente, l’altra incespica. Una è clinica e l’altra auto-ironica. Ogni volta che sembra aver isolato un elemento centrale, il regista si affretta a ridimensionarne la portata, rinviandolo alla sua limitatezza. È il giro che conta. Nel caso specifico, il fatto che il Fn sembra ormai essersi sostituito a tutto, essere presente in ogni dimensione dell’esistenza.
In questo senso, Chez nous – che in Italia arriva col titolo di A casa nostra – rima con Retour à Forbach, bel documentario di Regis Sauder nelle sale in Francia in questi giorni, girato anch’esso in una cittadina ex-industriale.

In maniera  personale e diretta, Sauder fa anch’egli l’esperienza orrifica del Fn come risposta totale. E come esso si presenti come un tutto, sottraendosi in fondo alla questione del giudizio per incollarsi semplicemente al movimento della vita.