Quando nel 2016 vinse il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia con Ang babaeng humayo (The Woman Who Left), Lav Diaz aveva già alle spalle una ventina di lungometraggi, realizzati a partire dalla fine degli anni ’80, quasi tutti in bianco e nero e di durate eccezionali rispetto ai soliti standard cinematografici. Pochi mesi prima aveva vinto l’Orso d’argento alla Berlinale con A Lullaby to the Sorrowful Mystery, che durava 8 ore, mentre il suo film più lungo, Evolution of a Filipino Family, del 2004, dura 11 ore ed è anche il primo che lo ha fatto conoscere fuori dal suo paese (grazie anche al lavoro di divulgazione di Alexis Tioseco, giovanissimo critico filippino assassinato in casa sua il 1 settembre 2009 insieme alla sua compagna a cui è dedicato uno dei film di Diaz, An Investigation on the Night That Won’t Forget).

Un giovane critico e studioso di cinema, Michael Guarneri, ha raccolto le conversazioni che nell’arco di un decennio (dal 2010 al 2021) ha avuto con il regista filippino, dando corpo a un libro, Quando le onde se ne vanno (edito da il Saggiatore), dove si intrecciano militanza poetica e visione politica, passione cinematografica e necessità storica, sapienza economica e lucidità artistica.

Un libro denso, dove le parole ritornano, anno dopo anno, intervista dopo intervista, a puntellare un discorso progettuale, un’analisi mai consolata, mai soddisfatta dei punti raggiunti, né sul piano poetico né su quello politico, perché – sembra dirci Lav Diaz in più di un’occasione – tutto è ancora da ri(dis)fare (sarà per questo che fa un film all’anno – a volte anche due – ritornando agli stessi fantasmi da punti differenti, ogni volta diversamente fantasmatici?).

I film di Diaz sono tanti, e le conversazioni prendono spunto di volta in volta dall’ultimo lavoro realizzato per andare quasi sempre sul piano politico: sul peso del regime di Marcos, su come non sia mai davvero passato; o su quello di Duterte, che fa ammazzare le persone per strada brutalmente come nemmeno in un western o un noir di Raoul Walsh o di Don Siegel; o sul silenzio in cui giace la stragrande maggioranza della popolazione (filippina? mondiale?) di fronte alla violenza del potere. I film di Diaz sfidano quel silenzio, affrontando dialetticamente le ferite aperte di una società implosa, impaurita, abbrutita. Aprendo strade, suggerendo prospettive alternative.

Perché «il cinema è uno strumento», lo ripete spesso Diaz, a suo modo rosselliniano. Lo si può usare per far conoscere anche la storia di un paese, di una cultura. E il modo in cui lo si fa, fa la differenza.
Lav Diaz rivendica per esempio il suo modo «organico» di fare cinema, che vuol dire confrontarsi con la realtà di ciò che rimane fuori campo, con gli imprevisti (atmosferici, ambientali, sociali), sviluppare una relazione con la vita che assedia il set, mescolarsi, contaminarsi, aprirsi al cambiamento suggerito da qualcosa di inaspettato. E questo non è possibile farlo se si seguono le regole che oggi impone il sistema produttivo del cinema d’autore in Europa o negli USA: i pitch, le richieste di fondi per lo sviluppo, per la pre-produzione, per la produzione e infine quelli per la post-produzione (tutto un sistema parcellizzato che se seguito pedissequamente porta via anni e molta, troppa energia per realizzare un film).

«In un contesto come quello filippino, però, non si può aspettare. Io non posso aspettare. Se mi appassiono a un’idea, a una storia, a un progetto, lo faccio e basta. Senza attese. Se riesco a cavarmela da solo o con un gruppo di poche persone lo faccio. Istituzioni europee come l’Hubert Bals Fund di Rotterdam concedono facilmente qualche finanziamento ai registi e nelle Filippine pochi euro valgono moltissimo. Nel nostro paese bastano 8mila euro per una produzione!».

E’ così che sono nati la maggior parte dei film di Lav Diaz, realizzati con pochi soldi, molta sapienza, alcuni amici che lo sostengono e lo aiutano da tempo, idee forti e curiosità sterminata. Film necessari, film «organici»: «Siamo come agricoltori che vanno nei campi a faticare e a rivoltare il terreno per far crescere qualcosa di nuovo. Non stiamo ad aspettare che siano i trattori di Stati Uniti ed Europa a farlo per noi. Possiamo farcela da soli, anche a costo di scavare a mani nude. È questo il nostro paradigma, l’esempio che seguiamo. Siamo abituati a fare le cose a modo nostro perché non ci sono enti finanziatori nel nostro paese.»