A vent’anni dall’inizio della guerra in Iraq, la parabola è evidente: la guerra al terrore ha fornito carburante al salafismo-jihadista, «il movimento di ribellione transnazionale più longevo della storia» secondo lo studioso Thomas Hegghammer. Due i Paesi in cui la war on terror si è dispiegata più a lungo e in cui, non a caso, il jihadismo ha avuto effetti istituzionali: l’Iraq, dove è nato lo Stato islamico in Iraq e Siria, con un parricidio verso i vecchi qaedisti che segna ancora il panorama attuale, e l’Afghanistan, dove il jihadismo nazionalista, territoriale e negoziale dei Talebani, ha mostrato l’alternativa a quello globalista, con la restaurazione dell’Emirato islamico nell’estate 2021.

Vent’anni fa, su entrambi i fronti, le cose apparivano diverse. Il primo maggio del 2003, di fronte ai soldati americani a Kabul, il segretario di Stato Donald Rumsfeld dichiara «conclusi i combattimenti maggiori». Poche ore più tardi, sulla portaerei Abraham Lincoln, il presidente George W. Bush annuncia «missione compiuta» in Iraq. È tempo di ricostruire, dice. Al contrario, seguono tempi di guerra e distruzione. Il movimento salafita-jihadista trae linfa dall’occupazione militare, le fila si ingrossano, le casse si riempiono, le strategie si adattano. Nuovi leader alzano la testa. Provocando scismi duraturi.

Nel 2003, quando gli Stati uniti invadono l’Iraq, c’è «un unico gruppo jihadista già presente nel Paese», ricorda Peter Neumann. Il Gruppo per il monoteismo e il jihad è stato formato pochi mesi prima nelle aree curde dell’Iraq settentrionale. Ne fanno parte militanti giordani, siriani, afghani, pachistani e curdi. Alla guida c’è il giordano Abu Musab al-Zarqawi, che nel 2001 ha dovuto abbandonare l’Afghanistan a causa dei bombardamenti americani. Per Fawaz Gerges il suo gruppo è «una creatura dell’invasione a guida americana del 2003». Nel 2004, il matrimonio con al-Qaeda: il giordano Zarqawi giura fedeltà allo sceicco saudita, annunciando la nascita di al-Qaeda in Mesopotamia, noto come al-Qaeda in Iraq. Ma il matrimonio è di convenienza: tante liti sulla strategia. Zarqawi riceve reprimende, ma tira dritto. Incarna la nuova leva del jihadismo internazionale, influenzata dalla corrente più estremista del salafismo. I vecchi sono attendisti, pragmatici, moderati, morbidi con i “devianti” dentro l’ummah, la comunità dei fedeli.

I nodi generazionali vengono al pettine dieci anni dopo: a guidare il gruppo erede di al-Qaeda in Iraq c’è Abu Bakr al-Baghdadi, a cui l’Iraq però sta stretto. Vuole la Siria. Nel 2013 annuncia la nascita dell’Isil, Stato islamico in Iraq e nel Levante. Con quell’annuncio, apre la frattura più clamorosa nell’arcipelago jihad, inaugurando la lotta per l’egemonia tra al-Qaeda e lo Stato islamico. Il futuro Califfo rivendica infatti l’autorità sul fronte al-Nusra, la costola locale di al-Qaeda da cui pretende un atto di sottomissione. Nel 2014 al-Qaeda, alla cui guida c’è ora l’egiziano Ayman al-Zawahiri, taglia i ponti formalmente con i parricidi.

Per Tore Hamming, nasce allora la guerra civile del jihad globale, come recita il sottotitolo del suo recente The Jihadi Politics (Hurst Publisher 2023). La postura più aggressiva della nuova leva crea una fitna che polarizza e frammenta il movimento jihadista. Con esiti imprevedibili, che testimoniano l’estrema duttilità dei gruppi militanti, oltre che un passaggio strategico importante: dalla torsione globalista al radicamento territoriale.

Il fronte siriano al-Nusra, il cui controllo ha causato la spaccatura tra lo Stato islamico e al-Qaeda, finisce infatti per separarsi dalla casa madre qaedista. Il salto vero è del 2017, dopo aver stabilito controllo e apparati di governance nel nord-ovest della Siria, dove sfrutta malcontento popolare e vecchie rivendicazioni.

Se il gruppo siriano sceglie la «terza via», altrove continua il conflitto tra i gruppi affiliati ad al-Qaeda e quelli legati allo Stato islamico. Anche in Africa, «il continente in cui il danno del terrorismo si sta sviluppando più rapidamente e diffusamente», secondo l’Analytical Support and Sanctions Monitoring Team delle Nazioni unite del febbraio 2023. «Due dei tre gruppi affiliati all’Isis più dinamici sono in Africa», recita il rapporto, mentre al-Shabaab, storica costola qaedista in Somalia, vanta tra i 7mila e i 12mila combattenti. Il Sahel, in particolare, è diventato «l’epicentro del jihad». Così ha rivendicato il 6 marzo scorso su France 24 l’algerino Abu Obeida Youssef al-Anabi, a capo di al-Qaeda nel Maghreb islamico. Vanta lotta dura contro i “devianti” dello Stato islamico, reclutamento in crescita e continua espansione territoriale. Ma con ambizioni locali, specifica al-Anabi.

Proprio sulle ambizioni locali hanno dovuto insistere i Talebani per arrivare nel febbraio 2020 alla firma dell’accordo di Doha con gli Usa. Via le truppe dall’Afghanistan, dietro assicurazione che «noi con il jihad globale non c’entriamo». Poche settimane fa, nel terzo anniversario, Washington e Kabul si sono rinfacciati il mancato rispetto dell’accordo. Ma i Talebani governano il Paese, non riconosciuti, mentre le truppe americane hanno levato le tende. Il controterrorismo, ora, è over the horizon: come l’operazione che ha portato alla morte di Ayman al-Zawahiri, il numero uno di al-Qaeda. Ucciso il 31 luglio 2022 da un drone americano all’età di 71 anni, dopo più di 50 anni di militanza, a Sherpur, quartiere residenziale di Kabul. Per i Talebani, che hanno in mano ministeri e posti di confine perché hanno assicurato di non essere una minaccia globale, il capo di al-Qaeda non era mica a Kabul.

Non possono però negare la presenza della Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico. Gruppo rivale che gli contesta di aver fatto politica, rinunciando al jihad duro e puro, senza compromessi. Una minaccia contenuta, per i Talebani. Una minaccia in crescita, per gli Stati uniti. Il 16 marzo scorso il generale Michael Kurilla, comandante del Comando Centrale statunitense, durante un’audizione al Senato a Capitol Hill ha dichiarato che in Afghanistan lo Stato islamico sta velocemente sviluppando la capacità di condurre «operazioni esterne» in Europa e in Asia. Forse qualcosa è andato storto?