Ombrellini parasole arcobaleno, maxi cuori di cartone e bandiere. Ecco il Gay Pride di Budapest partito da piazza Madách per percorrere le vie del centro coinvolgendo migliaia di persone. Un Gay Pride che quest’anno ha assunto un significato particolare legato alla protesta contro la legge anti-Lgbtq che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha definito vergognosa e discriminatoria.

Una legge omofoba, secondo la comunità Lgbtq che, contestualmente all’entrata in vigore, ha lanciato una petizione e incassato la solidarietà dell’opposizione politica e sociale di marca progressista.

ECCO LA REAZIONE alla legge della vergogna, quella che pretenderebbe di tutelare lo sviluppo sessuale e la stabilità psicologica dei più giovani e mette nello stesso calderone omosessualità, pornografia e pedofilia. Quella che ha valso all’Ungheria di Viktor Orbán una nuova procedura di infrazione in quanto viola la Carta europea dei diritti fondamentali.

Ora Budapest ha due mesi per dare una risposta su cosa intenda fare con la disposizione approvata dal Parlamento a giugno. È noto che, il primo ministro ungherese ha annunciato un referendum sulla legge, ampliando il volume delle critiche provenienti dall’opposizione che lo accusa di aver compiuto passi falsi in ambito di fondi comunitari, a causa della corruzione dilagante nelle alte sfere, di svergognare il paese con leggi che definire antidemocratiche è poco, e di essersi inventato una guerra assurda con l’Unione europea con la trovata di questo referendum.

Nel paese c’è preoccupazione ma anche speranza per l’intesa raggiunta da sei partiti dell’opposizione in funzione delle elezioni previste per l’aprile prossimo.

FINO AD ALLORA dovranno passare lunghi mesi ma intanto gli avversari politici di Orbán promettono di fare del loro meglio per contrastare le iniziative del governo: «Ci impegneremo a far fallire il referendum», garantiscono quelli di Dk (Coalizione Democratica). Lasciano anche intendere che quanto faranno ora sarà solo un assaggio in attesa dello scontro elettorale: «Cancelleremo tutte le leggi ingiuste di Orbán», dichiarano in coro i firmatari dell’accordo elettorale.

Staremo a vedere, perché di fronte a loro hanno un avversario difficile al quale, in un certo senso, è stato dedicato il Gay Pride di ieri. Una manifestazione che, come già precisato, ha assunto un valore particolare.

Don’t stop me now dei Queen ha accompagnato la partenza del corteo che ha chiuso il mese dell’orgoglio gay in Ungheria e, come previsto, non si è limitato a essere una pura celebrazione, ma è diventato un’occasione visibile di protesta contro le politiche omofobe dell’esecutivo. «Prendere posizione contro di esse è un impegno di civiltà», dicono alcuni assidui delle manifestazioni antigovernative.

VA CONSIDERATO che la risposta alle iniziative del potere non ha luogo solo nelle piazze cittadine, ma anche in quei luoghi virtuali che sono i social dove capita che la protesta si sposi con l’ironia. Ecco, per esempio, comparire l’immagine ritoccata di Viktor truccato e ammiccante che, sullo sfondo della bandiera arcobaleno canta I want to break free con la voce di Freddie Mercury.

Si ride, ma è chiaro che occorre lavorare sodo per un’alternativa e per sottrarre le sponde che il governo ungherese ha offerto a omofobi, xenofobi e razzisti. Cioè a quanti si sono sentiti spalleggiati dalle iniziative del potere e in precedenti edizioni del Gay Pride hanno assunto le sembianze dei provocatori che si erano avvicinati ai cortei con fruste in mano e, legati alla cintola, improbabili borselli con incisi i motivi delle prime tribù magiare.