L’America ostaggio delle milizie
Hate groups All’origine dei gruppi armati di estrema destra che oggi infestano le piazze statunitensi proclamando la necessità di prepararsi allo «scontro finale» con il governo federale
Hate groups All’origine dei gruppi armati di estrema destra che oggi infestano le piazze statunitensi proclamando la necessità di prepararsi allo «scontro finale» con il governo federale
È stato arrestato l’uomo che aveva sparato sulla folla a Charlottesville nel corso della manifestazione dell’estrema destra lo scorso 12 agosto, fortunatamente senza conseguenze: si tratta di un membro del rinato Ku Klux Klan, Richard Preston. La marcia Unite the Right si era conclusa con un morto, una ragazza che protestava contro l’invasione del campus dell’università della Virginia, Heather Heyer, investita dall’auto di un neonazista dell’Ohio.
LA GALASSIA di organizzazioni e gruppuscoli che si era data convegno quasi un mese fa è fortemente eterogenea ma il suo nucleo duro sono le cosiddette milizie, gruppi armati che proclamano la necessità di prepararsi allo «scontro finale» con il governo federale, considerato illegittimo e tirannico. Alcune decine di membri di questi gruppi, vestiti in tuta mimetica e con i loro fucili mitragliatori bene in vista erano presenti a Charlottesville, riuscendo a intimidire la stessa polizia, che è stata molto criticata per non aver impedito il contatto fra i neonazisti e gli studenti che protestavano contro la loro presenza.
Secondo il Southern Poverty Law Center, un centro studi di Montgomery, in Alabama, che monitora le attività delle organizzazioni razziste e antisemite, ci sono circa 917 hate groups attivi negli Stati Uniti oggi e, di questi, circa 165 sono milizie armate, che nascono sulla scia di due incidenti degli anni Novanta, uno a Waco in Texas e uno a Ruby Ridge, in Idaho, due episodi che fecero da catalizzatore a sentimenti di estraneità e diffidenza nei confronti del governo federale abbastanza diffusi nel West. Quest’ultimo caso, avvenuto nell’agosto di 25 anni fa, merita una ricostruzione più dettagliata perché la morte di una giovane madre ad opera di un tiratore scelto dell’Fbi diede al “movimento” i suoi primi martiri.
RANDY WEAVER E SUA MOGLIE Vicki lasciarono l’Iowa nel 1983 per stabilirsi nella parte più settentrionale dell’Idaho, in mezzo alle montagne a pochi chilometri dal confine canadese. Weaver era un ex berretto verde legato a un movimento fondamentalista chiamato Christian Identity. Nel dicembre 1990, Weaver viene messo sotto accusa per possesso, fabbricazione e vendita illegale di armi da fuoco. Il suo processo deve iniziare il 20 febbraio 1991 ma per un errore Weaver non si presenta all’udienza e il 14 marzo un procuratore federale lo incrimina per non essere comparso in aula.
GLI AGENTI FEDERALI, sapendo che Weaver è in contatto con Christian Identity, lo vedono come un pericoloso criminale, un Rambo capace di sopravvivere nei boschi e di eliminare un intero battaglione mandato alla sua ricerca, mentre Weaver a sua volta si autoconvince che ci sia un complotto del governo contro di lui e si autosequestra in una capanna nei boschi a Ruby Ridge, insieme alla famiglia.
Per un anno e mezzo, Weaver e le autorità giocano al gatto e al topo: l’uno sempre più convinto che le forze del male siano in agguato, gli altri sempre più sicuri che un’operazione paramilitare su larga scala sia necessaria per effettuare l’arresto, visto che l’intera famiglia è armata. Nella solitudine della casetta, Vicki Weaver dà alla luce un quarto figlio, Elishaba.
Il momento della verità arriva il 21 agosto 1992 quando Sam Weaver, il figlio quattordicenne di Randy, e Kevin Harris, un ventiquattrenne che vive con la famiglia, vengono sorpresi da sei sceriffi federali a poca distanza dalla casa. Ne segue uno scontro a fuoco in cui muoiono Sam e uno degli agenti, William Degan. Gli sceriffi federali si ritirano solo quando ricevono rinforzi, dopo nove ore di battaglia in piena regola. Un’unità speciale dell’Fbi chiamata Hostage Rescue Team viene fatta arrivare sul posto, l’assedio comincia.
UNDICI TIRATORI SCELTI prendono posizione attorno alla casa, dove ci sono adesso tre bambini, i coniugi Weaver e Kevin Harris. È il comandante della squadra speciale, Richard Rogers, a decidere che qualunque maschio adulto della famiglia Weaver (quindi Randy Weaver e Kevin Harris) sarà considerato un obiettivo legittimo per i tiratori dell’Fbi senza che ci sia bisogno di atti ostili da parte sua. Si spara a vista. Queste regole per aprire il fuoco diventeranno poi il cuore dello scandalo: tradizionalmente gli agenti federali sono autorizzati ad aprire il fuoco soltanto se c’è un immediato pericolo di vita per se stessi o per dei civili.
Il giorno dopo, sabato 22 agosto, Randy Weaver e Harris escono dalla capanna e immediatamente gli agenti fanno fuoco: Weaver viene ferito alla spalla, Harris si precipita verso la porta e un cecchino, Lon Horiuchi, spara anche su di lui. Il colpo lo manca ma uccide Vicki Weaver, che aveva in braccio la piccola Elishaba.
I vicini di casa di Weaver e gli abitanti della contea, intanto, manifestano la loro ostilità contro il governo federale e le sue «truppe di occupazione» innalzando cartelli come: «Lasciate in pace la famiglia, andatevene a casa», «Cristiani contro la tirannia», «Basta con questi abusi della nostra libertà», «Il governo mente, un patriota muore».
LO SCONTRO SI CONCLUDE grazie alla mediazione di James “Bo” Gritz, un ex comandante dei berretti verdi in Vietnam che aveva avuto Weaver nel suo reparto 13 anni prima. Harris e Weaver vengono rinviati a giudizio per l’omicidio dello sceriffo e per una infinita serie di reati, ma nel corso del processo il vero imputato diventa l’Fbi, che aveva deciso di sparare per uccidere e non solo per rispondere al fuoco.
L’immagine di una madre americana uccisa sulla porta di casa con una neonata in braccio sembrava fatta apposta per commuovere i giurati.
NEL LUGLIO 1993 Weaver viene assolto da tutti i capi d’imputazione, tranne quella di detenzione d’arma illegale, per la quale viene condannato a 18 mesi di prigione, che finisce di scontare poco prima del Natale 1993. La morte di Vicky Weaver diventa una cause celèbre non solo per gli estremisti di destra ma anche per i repubblicani alla Camera e al Senato. In fondo si trattava di una donna, bianca, madre di una bimba di pochi mesi, uccisa sulla porta di casa da una pallottola della polizia: una martire fatta su misura per chi volesse mettere sotto accusa l’operato dell’amministrazione Clinton.
Quando il governo eccede nell’uso della forza essere bianchi, cristiani e di destra aiuta molto: la pressione della maggioranza politica repubblicana è tale che nel 1995 il dipartimento della Giustizia preferisce chiudere il caso Weaver con una mezza ammissione di colpa: in base a un accordo firmato nell’agosto le tre figlie di Randy ricevono un milione di dollari ciascuna per compensarle del «dolore» e della «sofferenza» causate dalla morte della loro madre.
DA ALLORA, GLI WEAVER diventano icone dell’estrema destra, simboli da imitare, come faranno Ammon Bundy e i suoi amici, che nel gennaio 2016 occupano un piccolo edificio, il Malheur Wildlife Refuge, in Oregon per protestare contro la “prepotenza” del governo federale. Dopo 40 giorni di assedio e uno scontro a fuoco in cui muore uno dei miliziani il gruppo si arrende ma, anche in questo caso, la giuria popolare manifesta la sua simpatia per i ribelli assolvendoli dalla maggior parte delle accuse.
Quando Donald Trump rifiuta di condannare esplicitamente i suprematisti bianchi che hanno invaso Charlottesville in realtà parla a questa parte di America profonda.
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