L’articolo del New York Times magazine precipita come una doccia gelata sulla mossa ferragostana del governo Gentiloni di rinviare al Cairo l’ambasciatore italiano Giampaolo Cantini, rimasto in stand by a Roma dal maggio 2016, quando prese il posto di Maurizio Massari, in attesa della «verità vera» sull’omicidio di Giulio Regeni.

Il tentativo di far passare la decisione come contropartita degli «ultimi sviluppi investigativi» condivisi dal procuratore capo egiziano Nabil Sadek con l’omologo romano Giuseppe Pignatone – diligentemente accolto da molti organi di stampa, malgrado il comunicato a dir poco tiepido della procura di Roma – è improvvisamente diventato carta straccia.

Da Sinistra Italiana e dal M5S, soprattutto, ma anche dall’interno dello stesso Pd, si levano voci di protesta. E la richiesta di riaprire le camere e convocare immediatamente il governo per sapere se sia vero o no quel che rivela il NYT, ossia che l’allora amministrazione Obama aveva comunicato a Palazzo Chigi – senza entrare nei dettagli per ragioni di sicurezza – che nelle mani dell’intelligence Usa c’erano le «prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale dell’Egitto» nel rapimento, nella tortura e nell’uccisione del ricercatore friulano.

«Se questo fosse vero le responsabilità di omissione del governo italiano sarebbero gravissime, come è grave la scelta di rinviare l’ambasciatore al Cairo», fa notare Sinistra italiana. Ma la voce più grossa la fa il deputato a 5 Stelle Alessandro Di Battista che accusa «Renzi, Gentiloni, Minniti e Alfano» di essere «traditori della patria» e di aver mentito al Paese dal giorno del ritrovamento del corpo di Giulio, il 3 febbraio 2016.

Mentre i genitori del ricercatore friulano si dicono «pronti ad andare al Cairo» per proseguire l’indagine indipendente avviata dai loro legali, e chiedono il supporto (subito raccolto dall’Fnsi) dei media e dei giornalisti indipendenti. Si dichiarano «indignati» per il ritorno dell’ambasciatore: «Perché rappresentava l’unica nostra arma per fare pressione sul governo egiziano che finora non ha dato segni di collaborazione se non l’invio di questo faldone che non si sa ancora cosa contenga», afferma Claudio Regeni riferendosi ai verbali appena trasmessi a Roma (rigorosamente in arabo e vergati a mano) dell’ultimo interrogatorio dei poliziotti cairoti coinvolti nel pedinamento di Giulio Regeni.

Parole che riescono ancora una volta a smuovere anche qualche coscienza dem: «Sento profonda amarezza per come è stata presa una decisione che ha ferito i genitori», ammette la vicepresidente del Pd, Barbara Pollastrini, che sceglie di marcare la differenza: «Io non rinuncio a credere che la politica non sia solo realpolitik».

E invece è solo in nome della realpolitik – il legame di Al Sisi con il generale libico Haftar, e dunque il suo ruolo fondamentale nella regione anche per fermare il flusso di rifugiati, gli interessi delle imprese italiane in Egitto a cominciare dall’Eni, e la competizione con la Francia – che i rapporti diplomatici con l’Egitto del generale golpista si sono normalizzati, a scapito della dignità dell’intero nostro Paese. Ad ammetterlo sono gli stessi parlamentari – Nicola Latorre (Pd), Maurizio Gasparri (Fi) e Vincenzo Santangelo (M5S) – che un mese fa hanno incontrato Al Sisi per preparare il terreno alla riapertura della sede diplomatica del Cairo.

Latorre, a capo della delegazione, ammette come sia stata «fortemente ribadita» dallo stesso Al Sisi «l’esigenza» di ristabilire le relazioni diplomatiche «per tornare protagonisti all’interno del Mediterraneo e per rafforzare il nostro ruolo anche nella crisi libica, oltre al dovere di tutelare i tanti italiani in Egitto». Il senatore Pd, che considera comunque necessaria la presenza di Cantini per «rendere più proficuo il lavoro di ricerca della verità», solleva il sospetto che la tempistica dell’inchiesta del NYT «sia stata funzionale a creare problemi alle nostre relazioni con l’Egitto».

Gasparri invece aggiunge un tassello inedito del patto evidentemente stipulato con il generale golpista quando afferma che la «nostra iniziativa parlamentare ha anche sopperito alle inadeguatezze della procura della Repubblica di Roma».

E infine il pentastellato Santangelo, che bolla la scelta della Farnesina come «un segnale di debolezza». Di fronte all’avanzata dei francesi nelle relazioni economiche con Il Cairo, «il governo italiano – afferma – ha barattato il ritorno dell’ambasciatore con dei documenti. Ma quelli arrivati non possono bastare».