Piazza Maidan a Kiev è ricoperta ancora di tende, fiori e cartelli. Su una gigantesca torre circolare ci sono manifesti di ogni tipo, tra cui il più grande in cui si vede Putin truccato con i baffetti per suggerire una forte somiglianza con il dittatore del terzo Reich. Si vendono magliette «I love Ukraine», cimeli delle barricate, zuppe calde e libri sulla storia della nazione. Il colore giallo e blu è presente ovunque, insieme al Tryzub, il tridente stilizzato che è simbolo dell’Ucraina. L’atmosfera è fumosa e surreale; le barricate costruite con vecchi pneumatici costeggiano tutta la piazza, ancora chiusa al traffico e continuano lungo la mastodontica strada Khreshchatyk, dove sorge il Comune della città che ospita una via-vai di uomini vestiti militare, con sguardi duri, da guerra. Non ci sono studenti in giro, non si vedono presidi politici, niente ragazzi che suonano, musica e euforia. Un grande accampamento di visi lividi, scuri, tesi. Le bandiere di Svoboda (il partito di estrema destra nazionalista che alle ultime elezioni ha ottenuto il 10 %) e di Pravyj Sektor la fanno da padrone. La prima è gialla e blu e recità lo slogan del partito – «libertà», la seconda è nera e rossa ed è quella dei neonazisti locali. Un gruppuscolo di antisemiti fino all’altro ieri praticamente inconsistente ma che oggi è presente ad ogni celebrazione di Euromaidan. Si fa vedere col nero delle sue uniformi e marcia compatto.

Piazza Maidan a Kiev non racconta tutto quello che è successo davvero a chi la vede soltanto ora. Natalya lavora in un albergo a tre vie dai luoghi degli scontri di febbraio. Si guarda intorno e scuote la testa: «Non sono per niente ottimista» – dice – «Quello che sta succedendo è molto pericoloso. All’inizio erano studenti che lottavano contro la corruzione di un regime di affaristi mafiosi. Adesso guarda, guarda tu stesso! Militari e ubriachi che non promettono nulla di buono». Effettivamente vien da chiedersi, che cosa sta succedendo a Kiev? Dov’è finita la protesta europea? Chi comanda adesso? Comunque il resto della città sonnecchia. Negli eleganti quartieri alto-borghesi in collina, vecchie signore escono da negozi di griffes famose, piene di sacchi e vestiti, la meravigliosa chiesa di Santa Sofia è aperta ai turisti come sempre, i ristoranti funzionano, il lavoro continua come prima. Dalla stazione centrale partono centinaia di treni al giorno: Kharkiv-Odessa-Donetsk-Lviv. Nessun funzionario parla inglese, soltanto ucraino e russo; risulta davvero difficile l’impresa di accaparrarsi un biglietto per Chernivtsi. Il vecchio treno sovietico che segue questa tratta, attraversa un paesaggio di fabbriche e paesini di campagna, intervallato da grandi boschi di betulle bianche, ancora addormentate nel freddo dell’infinito inverno dell’est.

La regione rurale di Chernivtsi si trova a sud-ovest, al confine con Romania e Moldova, da decenni una delle aeree dell’Ucraina con il più alto tasso di emigrazione verso l’Europa. La qualità della vita è qui relativamente buona, rispetto al resto del paese. I risparmi degli emigrati hanno permesso alle famiglie di costruirsi una casa e di mettere qualche euro da parte. Si parla moldavo più che ucraino e si segue la revolutia da lontano. Il capoluogo della regione è una piccola città di provincia, con vie e piazze austro-ungariche, segno chiaro di anni di dominazione europea. Anche qui è stata allestita una piccola piazza Maidan, con il sempre presente chiosco di Svoboda, i ritratti dei caduti di febbraio e un vecchio pianoforte nero che rappresenta l’episodio ben noto del ragazzo di Lviv che in mezzo alla bagarre degli scontri di Kiev, si era messo a suonare una dolce melodia classica. C’è un bellissimo teatro lirico e una delle più grandi università del paese, ospitata all’interno di un incredibile edificio in stile eclettico, ispirato all’architettura delle città anseatiche. Léa e il suo ragazzo passeggiano nel giardino dell’università. Entrambi architetti di Odessa, si sono presi una pausa dal trambusto di questi ultimi mesi per un breve viaggio nell’ovest del paese. Lea ha l’espressione triste, lo sguardo spento, inizia a raccontare e sembra non voler smettere più: «Noi siamo ucraini, siamo europei, non russi. Putin è un criminale mafioso e ci vuole invadere». La sua preoccupazione è viva, la voce tremante. «La Russia non ha rispettato il trattato (ndr vedi Crimea), come ci si può fidare? Vogliamo vivere in un paese in cui si possa esprimere la propria opinione senza il timore di rappresaglie poliziesche». Léa fa parte di una classe colta che ha studiato, vicina per sentimenti all’Europa e allo stile di vita occidentale. Proprio da loro è cominciata la giusta rivolta di Kiev, guidata dai sentimenti degli studenti indignati per la marcia e corrotta burocrazia di un sistema che ha visto come suo ultimo rappresentante Yanukovich ma che esiste dal giorno in cui l’Ucraina diventa indipendente. Lèa rappresenta anche quella sensibile frattura generazionale che risulta così evidente e palese. Da una parte giovani metropolitani vicini all’occidente, dall’altra i più anziani che spesso rimpiangono l’Urss ricordando con nostalgia (e anche con cognizione di causa) un mondo dove c’era lavoro per tutti. Via via che ci si allontana dai centri più grandi, i sentimenti delle persone cambiano al ritmo della vita che si fa meno caotico e più tranquillo. Le priorità di uomini e donne non sono le stesse; spesso la rivoluzione di Kiev è un argomento di conversazione più astratto.

Costiceni è un piccolo borgo di 3500 abitanti che sorge sulle rive del fiume Prut, la linea di frontiera fra Ucraina e Romania. Anzhela è sulla quarantina, ha lavorato a Milano diversi anni come collaboratrice domestica e oggi è rientrata a Costiceni. Vive insieme al figlio in una grande casa di campagna, alleva maiali, conigli e capre; riesce così a cavarsela senza dover fare la spesa tutti i giorni. Le sue parole colpiscono come pietre, raccontano un paese dove il potere economico è appannaggio di pochi oligarchi,tra i più potenti del mondo, e i meccanismi sociali seguono regole semi-feudali: «Mio figlio si è appena laureato e io ho dovuto sborsare 4000 euro per farlo assumere. Oggi guadagna 100 euro al mese. Viviamo in un mondo dove la corruzione è in ogni piccolo momento della nostra quotidianità. Con cento euro al mese come si fa a vivere? I prezzi dei beni di prima necessità non fanno che aumentare, vai al mercato a comprare due broccoli e ti chiedono 2 euro. È pura follia. «Il suo ricordo dell’Unione sovietica è nitido. Tutti studiavano, tutti lavoravano: «Sì, se ti trovavano per strada a bere di giorno, ti venivano a prendere – cosa fai ? vieni che devi lavorare. Oggi mio figlio vuole l’Europa, vuole una bella macchina e le libertà occidentali ma non si rende conto che tutto ha un prezzo e che se i salari non ci sono neanche le libertà possono esistere». Angela pensa che l’Ucraina non dovrebbe allontanarsi troppo dalla Russia perché ritiene che guardando a est le possibilità di risollevare l’economia siano più consistenti.

L’Europa è un argomento che ritorna ma spesso non è il centro dell’interesse reale. Molte delle persone che rivendicano una radicale distanza dalla Russia pensano che un ingresso nell’Unione Europea dell’Ucraina sarebbe un suicidio economico, la strada sbagliata. C’è una grande lucidità su questa questione e molti sottolineano il fatto che non ci sono ancora le basi per raggiungere l’Ovest. L’Europa è lontana, forse troppo. La cittadina vicino a Costiceni si chiama

Novoselycja. È più grande ed è qui che ci sono gli uffici amministrativi provinciali. Davanti alla sede della polizia, un ragazzo fuma una sigaretta pensieroso, parla italiano e racconta la sua storia. «Sono qui per ritirare il certificato di morte di mio fratello, sono tornato apposta dall’Italia. Mi hanno chiesto soldi. Capisci? L’amministrazione mi chiede soldi per la morte di mio fratello! «Georgii è molto vinco alle ragioni di Euromaidan. «Credo che fosse assolutamente necessario e non è vero che sono tutti fascisti i dimostranti. Pensa, per esempio, all’episodio del pianoforte. La polizia picchiava gli studenti, erano tutti stremati e poi all’improvviso, dal nulla un ragazzo si mette a suonare un vecchio pianoforte che era stato abbandonato. Tutti smettono di azzuffarsi e per qualche minuto si ascolta la musica in silenzio. Ecco, io la vedo così. Sarà questa musica a cambiare l’Ucraina e a farne un paese migliore». Una grande problema che sembra emergere da diverse testimonianze è quello degli infiltrati, da una parte e dall’altra. Alla biblioteca di Costiceni raccontano che un gruppo di uomini incappucciati è arrivato di notte a distruggere a picconate la statua di Lenin; altri invece sono certi che a est la Russia stia pagando fior di quattrini, personaggi di oscure origini per creare tensione. Certo è che non si respira un’aria buona e chi ha nobili sentimenti sembra molto lontano dal tenere le redini di questo periodo di transizione politica.

Lviv (o Leopoli) si trova più a nord a poche centinaia di chilometri da Cracovia. È considerata da molti la culla del nazionalismo ucraino e anche la città più fieramente europea. Alim è tataro, mussulmano di Crimea. Oggi lavora in un’associazione che cerca di proteggere la comunità dalla discriminazione russa. È molto preoccupato: «Mia mamma mi è venuta a trovare e non vuole più tornare in Crimea. Abbiamo paura perché i russi non ci hanno mai sopportato. «I tatari non hanno avuto vita facile neanche quando al potere c’erano le autorità ucraine e da quando sono rientrati dall’esilio dopo l’epoca sovietica sono spesso stati abbandonati a loro stessi. Alim si dice sicuro che molti abitanti della Crimea abbiano scelto di votare l’annessione alla Russia, con la speranza di ritornare in una fantomatica Unione Sovietica del 21 esimo secolo. «Le persone credevano di riavere lo stato sociale andando con Putin. Non si rendono conto che la Russia di oggi è dominata da élites mafiose che fanno soltanto i loro interessi. Se ne pentiranno sicuramente tra qualche anno».

A Lviv regna un’atmosfera mitteleuropea, frizzante e dinamica: moltissimi caffè e locali notturni che restano aperti fino a tardi, chiese ortodosse, cattoliche e armene, hotel di lusso in stile viennese, ristoranti francesi. La Maidan locale è dominata da un grande palco su cui si esibisce principalmente la comunità ortodossa locale, intonando brevi preghiere in onore dei caduti a fianco dell’unico chiosco politico – sempre Svoboda. A pochi passi, in una viuzza del centro storico, da qualche giorno è spuntato uno strano bar, tinteggiato di rosso e nero. Varcata la soglia si intravede subito l’inquietante bandiera di Pravyj Sektor. Giovani ragazzi sorseggiano birra a fianco di ogni sorta di oggettistica nazionalista. Il fermento rivoluzionario di Euromaidan nasce sotto auspici contraddittori. Sono esplose grandi proteste spontanee di persone stufe di dover quotidianamente fare i conti con la corruzione dilagante di un sistema politico oligarchico, sorrette però da una retorica nazionalista, spesso orchestrata dall’alto che sembra rilevare più che altro da un interesse ideologico: dirigere l’Ucraina verso la sfera di influenza Nato e allontanarla dalla Russia. Convivono i sentimenti di chi denuncia con coraggio le ingiustizie della politica ucraina che, in effetti, si riflettono nella Russia di Putin insieme a visioni di un’Ucraina-nazione che combatte per la sua unicità. Visioni esclusive e categoriche che mal si adattano ad un paese che si chiama U Okraina, letteralmente «sulla frontiera». E che lo è, davvero.

Si sta facendo tardi a Lviv. Le persone tornano a casa dopo la normale giornata di lavoro, si accendono le luci della bella piazza del municipio, i locali alla moda del centro cominciano a servire i primi cocktails. Improvvisamente la folla fa largo a un gruppo di una quarantina di persone in marcia, tutte vestite di nero. La prima fila abbraccia motoseghe spente al petto, tutti gli altri sono armati di bastoni. Le automobili si fermano, senza tanto scalpore, il gruppo passa, cantando canzoni militari e poi si disperde nei meandri delle stradine medioevali. È oramai sera a Lviv. Tutto diventa più scuro.

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