Nella protesta contro l’aumento dell’età pensionabile in Francia colpisce la partecipazione massiccia dei molto giovani. Lottano per un futuro che non li condanni alla schiavitù lavorativa e all’alienazione. Nella grande manifestazione che si è tenuta martedi scorso a Parigi, Mélenchon ha trovato le parole giuste per unire il lavoro al tempo libero. Finalmente un politico ha recepito la grande domanda inevasa dei nostri tempi: tempo per la vita perché il lavoro non diventi miseria esistenziale, dispositivo disumanizzante al servizio della mercificazione di ogni cosa.

Vale la pena di ascoltarle: «Non difendiamo solo il diritto di godere di una pausa della nostra esistenza. Affermiamo, soprattutto, che il tempo della vita non è solamente il tempo vincolato al lavoro e socialmente utile, ma anche il tempo libero. Il tempo libero non è un momento di inattività, ma un tempo di cui disporre quando possiamo decidere noi cosa fare: vivere, amare, prenderci cura dei nostri cari, leggere poesie, dipingere, cantare, anche non fare nulla, oziare. Il momento in cui possiamo essere totalmente umani. Loro dicono che “bisogna lavorare di più”. Perché? La chiave dell’avvenire e del futuro non è produrre ancora di più, ma produrre in maniera migliore e per farlo dobbiamo lavorare meno! La chiave di un futuro ecologico è lavorare meno così che la fatica possa essere più equamente ripartita tra tutti».

Sembrano parole «romantiche», utopie lontane da un approccio realistico alla vita. Sono, invece, espressione di una resistenza irriducibile al «realismo» produttivo dei nostri tempi infelici, che ci trasforma in entità resilienti, macchine performanti che, schiave del principio quantitativo, producono una concentrazione di beni inimmaginabile nelle mani di pochi. Beni in gran parte destinati all’immondizia, di cui nessun può fare uso per ricavare un piacere profondo e coinvolgente. In una società fondata sul principio di eccitazione e scarica che tende a dominare tutte le sfere della vita, espropriandoci sia dello spazio dell’intimità privata sia dei luoghi della convivialità cittadina, la differenza tra dominanti e dominati la fa la diversa disponibilità di mezzi per drogarsi: con il potere, con il consumo/annientamento di beni materiali, con il sesso, con la costruzione di realtà artificiali.

La deriva di un capitalismo lasciato operare secondo il principio di distruzione che abita il suo nucleo costitutivo, la misura la sostituzione del concetto di resistenza (l’opposizione a qualcosa che ci invade, ci opprime) con quello di resilienza (l’adattarsi al sempre peggio e all’alienazione). Gli esseri resilienti non conoscono la realtà perché temono le trasformazioni: agiscono evitandole, restando uguali a se stessi, e più il terreno si sbriciola sotto i loro piedi, più cercano rifugio nell’inerzia, nella desertificazione della loro esistenza.

Lavoro e tempo libero sono alleati naturali. Si nutrono l’uno dell’altro e perdono il loro senso di essere se sono dissociati. Il lavoro ha bisogno di un tempo di sedimentazione della sua esperienza, non assorbito dall’esigenza di performare, di maturazione dei processi di trasformazione che mette in gioco. Vive del piacere che la creatività dei suoi processi produce. Deve importare dallo spazio del tempo libero la sperimentazione e l’amore della scoperta, la capacità di variare prospettiva.

Le esperienze del tempo libero devono, a loro volta, importare dal lavoro lo sforzo dell’apprendimento che le rende realmente godibili e significative.

Il nostro senso del vivere (nel tempo del lavoro e nel tempo libero) viene dalla compenetrazione tra la tensione/fatica creativa e l’ozio: il «dolce far nulla», il sostare inoperoso, senza un fine preciso, nella sensualità piacevole diffusa della vita. Colpire il tempo libero in tutte le sue forme (la vita privata, la convivialità, le vacanze, il pensionamento) produce insensatezza e irragionevolezza.