Sembra evidente che il mondo dall’altra parte dell’oceano si stia concentrando nella riflessione su un passato troppo difficile. Dopo il Getty Museum con (Re)Inventing the Americas: Repeat. Erase, Construct, anche il Los Angeles Contemporary Museum of Art (Lacma) ha proposto una mostra come Afro-Atlantic Histories (appena conclusasi), segnalando la necessità di una consapevolezza storica per fare ammenda e cercare di ripagare i torti e le umiliazioni inferte nei secoli con il racconto del commercio transatlantico di schiavi durato per almeno quattro secoli, e la conseguente diaspora africana.

L’esposizione era stata inizialmente presentata come Histórias Afro-Atlanticas al Museu de Arte de São Paulo Assis Chatobriand (Masp) e all’Istituto Tomie Ohtake in Brasile, nel 2018. E dopo essere andata in tour in diverse sedi, viene «riassunta» e ha una sua ideale continuazione grazie al catalogo pubblicato da DelMonico Books/Museu de Arte de São Paulo, con scritti realizzati da oltre duecento artisti, alcuni dei quali presenti nel percorso allestito.

Attraverso più di cento opere d’arte e oggetti di vita quotidiana – che coprono un arco temporale che va dal diciassettesimo al ventunesimo secolo – si costruisce una narrazione sui flussi e riflussi tra Africa, Europa, le Americhe e i Caraibi.

L’esperienza durata secoli viene esplicitata anche attraverso il «British Abolitionist Document» che descrive, nei dettagli, pure quelli più crudi, cosa poteva essere una nave piena di schiavi sulle rotte verso le Americhe.

La fotografia «The Scourged Back», pubblicata nel 1863, evidenzia con precisione quasi medica gli effetti delle frustrate sulla schiena, mentre la scultura a parete di Arthur Jafa, Ex-Slave Gordon (2017), spiega in maniera ancora più chiara, e più drammatica, le condizione di questi prigionieri, semplicemente uomini, ma neri.

Da un rinnovato punto di vista, e sicuramente anche da nuove prospettive globali, nella rassegna si riesamina ancora, e forse finalmente con coraggio, una realtà, per troppo tempo ignorata e taciuta: quella di aver ridotto in schiavitù un intero continente e i suoi popoli, con una brutalità inaudita.

Chiamata anche «Black Atlantic» dallo storico Paul Gilroy, questa è fondamentalmente una geografia che non ha confini/limiti specifici, ma dove il dramma africano è stato visto, riconosciuto e vissuto in moltissimi luoghi. Attraverso l’incontro con altre culture ci si è lentamente e inarrestabilmente modificati e influenzati a vicenda, creando così diverse e nuove culture.

Si è così andata formando una sorta di trasformazione e assimilazione continua e reciproca, senza limiti, né temporali né geografici. La mostra, infatti, esplicita l’evolversi delle tante prospettive attraverso i lavori e l’arte che viene esposta nelle sale del museo. Sono disegni, dipinti, sculture, fotografie utilizzate in passato già da molti media. Sono opere che vanno dai dipinti storici di Frans Post ed Edward Antoine Renard, fino alle installazioni contemporanee di Kerry James Marshall o a Kara Walker.

Afro-Atlantic Histories è raccontata in sei diverse aree tematiche che esplorano, a loro volta, differenti narrative e sguardi, incoraggiandoci a vedere e scoprire connessioni sconosciute e legami tra lavori storici e quelli contemporanei, in modo da poter riconsiderare le storie «afro-atlantiche».

La prima sezione Maps and Margins della mostra è focalizzata sulla distanza e sul passaggio tra Africa e le Americhe, e su come gli artisti presenti hanno interpretato e trasmesso la storia di quel passaggio. Enslavement and Emancipation, invece, chiama in campo il terrore del sistema di schiavitù, e le tante lotte combattute per ottenere la libertà. Dipinti realizzati da europei raccontano visivamente le condizioni di cattività in cui vivevano i neri e descrivono l’atto della vendita degli schiavi, fino ad arrivare ad artisti contemporanei che vogliono rappresentare la brutalità usata, includendo nei loro lavori anche la memoria delle immagini storiche di schiavitù.

Everyday Lives raccoglie immagini che incontrano la quotidianità nel mondo (Africa, America, Caraibi), sia dal passato che dal presente, e dai tanti momenti vissuti dalle Black Communities. Lavori appartenenti a periodi temporali e aree geografiche diversi, cercano di proporre un dialogo tra immagini di Black people, proprio attraverso opere realizzate da europei (che troppo spesso avevano romanticizzato la sottomissione dei neri), e poi da immagini di artisti discendenti dal popolo africano, che manifestano le tante realtà delle disuguaglianze razziali, la violenza che le accompagna e ne consegue comunque.

In Rites and Rhythms sono incluse le descrizioni dei vari tipi di musica e danza che attraversano il mondo, scegliendo una prospettiva che inquadra le cerimonie religiose e i tanti altri riti in cui la musica è protagonista e, quasi ovvio, necessaria. C’è solo l’immagine del dipinto di sacerdoti e sacerdotesse che presenziano ai riti usando lingue africane. Sembrano così parlare e cantare facendo riferimento alla natura, al cosmo e ai suoi ritmi. Sono stati quattro secoli di silenzio, di violenza, di frustate e dolore indicibile. Anche l’universo sfaccettato dei media, della televisione e del cinema non voleva- e soprattutto non avrebbe potuto – esprimersi diversamente da quello che era già stato deciso altrove.

Questa mostra, finalmente, presenta un approccio nuovo e rivoluzionario. La sezione Ritratti propone volti di uomini neri originari dell’Africa, che includono leader, eroi, star della moda o semplicemente individui comuni. L’ultima sezione, Resistance and Activism, racconta probabilmente l’inizio di quello che si potrebbe e dovrebbe chiamare la «rivincita» nera.

L’autodeterminazione diventa uno strumento politico e civile e i lavori presentati in questa sezione sono proprio quelli di chi ha pensato e, ancora oggi, riflette strategie di protesta. Durante le manifestazioni si portano anche solo cartelloni e striscioni, che regolarmente aprono con orgoglio le marce per le strade, importanti già dallo scorso secolo. Quelle tante «sfilate dimostrative» hanno rimarcato, anche a pugno chiuso e con cori, il diritto di cambiare le cose e di esistere.