Papa Francesco ha affermato, tre settimane fa, che se una donna si rivolge a un medico per abortire, è come se affittasse un sicario per fare fuori un essere umano.
Eccesso di passione nella difesa delle proprie ragioni che le trasforma in una regola che non ammette eccezioni. Una differenza sostanziale tra la possibilità di abortire e la difesa ad oltranza della vita del feto, sta nel fatto che la prima è un diritto che non si impone come regola del vivere, mentre la seconda è una norma che si costituisce come eccezione alla libertà delle donne di scegliere se e come essere madri.

Trasforma la maternità in un esito obbligatorio del concepimento, comunque esso sia avvenuto e a prescindere dal desiderio e la volontà della donna.

Il diritto all’aborto appartiene a una categoria di diritti che definiscono scelte personali che per loro stessa natura non soggiaciono a una loro definizione politica e di conseguenza non possono essere né incentivate (come controllo delle nascite ad esempio), né proibite per via legale. Sono affidate, questo è il loro vero statuto giuridico, al senso di responsabilità del singolo cittadino.

Una donna può essere violentata, restare incinta e decidere di tenere il figlio. Un’altra concepisce un figlio con un uomo che desidera e opta per abortire. Come si fa a dire chi delle due è nel giusto? Come si può decidere cos’è la maternità per una donna in modo astratto, estraneo ad essa?
La donna può usufruire di un’analista, di un consulente psicologo, di un confessore, di un dialogo con il suo uomo, quando c’è, dei consigli di genitori, parenti, amici, traendone sostegno e conforto. Tuttavia la decisione finale su ciò che riguarda non una vita altra dalla sua, ma il volere essere madre o no in determinate condizioni esterne o interne, spetta a lei.

Decidere della vita del figlio è inammissibile, ma la vita intrauterina, il vivere nelle condizioni preliminari dell’esistenza, che tipo di vita è veramente? Nessuno accetterebbe di tornare nella placenta dopo avere respirato, gridato, ascoltato, odorato, toccato, gustato, visto il mondo alla luce del giorno. L’affacciarsi al vivere non è un criterio psicoanalitico, filosofico o giuridico per stabilire cos’è vita e cosa non lo è, ma serve a differenziare l’entrare in relazione con il mondo e con la materia umana che lo abita dal restare chiusi in se stessi nel modo più stagno. La donna può dare una forma compiuta al senso di responsabilità nei confronti del suo bambino, che precede la sua nascita, solo attraverso il contatto con il il suo corpo pulsante, finalmente al di fuori di lei.

Se si pensa che la vita continua dopo la morte, che il suo senso è in una sua dimensione spirituale a sé stante, avulsa dal vivere reale e dall’esperienza del corpo, che ne fa solo da contenitore biologico temporaneo, si può dare ugual valore alla vita fetale. Ma chi non la pensa così non può essere costretto a farlo o essere dichiarato assassino. Ci sono due concezioni della vita. La prima lega l’idea all’esperienza che impegna il corpo. La seconda sottomette l’esperienza all’idea. La forma più pericolosa dell’idea tratta gli esseri umani come apparati genetici, biologici: nel totalitarismo le forme radicali dello spiritualismo è del materialismo si sovrappongono.

Alle due concezioni della vita corrispondono due concezioni dell’etica: l’una, che non è prescrittiva, l’affida al senso di responsabilità dell’essere umano, l’altra, che tende a esserlo, l’affida a un’Entità Superiore (che nella fede religiosa è mitigata). La loro verità non è politicamente, legalmente decidibile se non con la violenza. Nella democrazia convivono e prosperano.