Immagini di donne che liberano i loro capelli dall’hijab, che lo fanno ondeggiare nel vento. Immagini tumultuose che testimoniano in modo incontrovertibile violenze efferate delle forze dell’ordine per il loro aver infranto il divieto di togliere il velo in pubblico. Una – in primo piano — dice che non dirà mai alla sue figlie come vestirsi, che dopo quarant’anni di apartheid di genere la Repubblica Islamica deve avere fine. Ancora immagini di persecuzioni e carcerazioni, degli istanti prima di una esecuzione.

Hanno il formato verticale dei video girati col cellulare, sono pixel incandescenti e clandestini partoriti spesso in condizioni impossibili e per questo con la forza disperata e resiliente di erompere da quel «grande carcere» che è l’Iran, come è definito nella dedica di Be my voice, documentario di Nahid Persson in questi giorni in sala in Italia.

Il film si immerge nel mondo di Masih Alinejad, giornalista, filmmaker nonché stella polare del più ampio movimento di disobbedienza civile della storia del Paese, nella sua vita a New York, densissima e al cardiopalma, col sottofondo dell’impossibilità – finora – a ritornare in Iran, pena il carcere o l’essere uccisa, ma anche nel vissuto delle donne che a lei affidano, oltreoceano, i loro video di denuncia e ribellione, che con lei comunicano via telefono o via social (riceve 2000 mail al giorno e ha 5 milioni di follower), e al tempo stesso nei riflessi di tutto questo sul tracciato della regista, sempre iraniana, da molti anni esule in Svezia, e in passato in carcere per la sua opera documentaristica femminista.

Come dunque nasce e si coltiva il dissenso? L’impegno politico e la capacità di esercitare, se necessario, la disobbedienza civile – dirà Masih – sono come un seme. Che può svilupparsi o meno. Ma quali sono i fattori individuali, sociali e politici che concorrono alla sua germinazione? Alla sua preservazione e alla sua carsica rinascita? Può atrofizzarsi in seguito a una grande paura o a causa della legge darwiniana dell’uso e del disuso? E cosa accade in un contesto come quello prodotto dal regime della Repubblica Islamica, che Alinejad, rifacendosi al romanzo di Heller, definisce da «catch 22», ossia da guerra perenne e silente senza via di scampo?

In questo senso, Be my voice rappresenta una magnifica chance per indagare l’attivismo contemporaneo e per comprenderne alcuni meccanismi universali, fin dalla narrazione del primo incontro tra Masih e Nahid Persson, nel loro pressoché immediato riconoscersi in una affinità fatta di vissuti e passioni risonanti, perfino nel ritrovarsi con la stessa cascata di ricci (al suo arrivo in Europa, dopo essere stata licenziata da giornalista parlamentare per aver denunciato la corruzione del sistema iraniano, per non dispiacere la sua famiglia, Alinejad portava un cappello, ma poi aveva deciso di guardare in faccia le sue paure e se lo era tolto).

E grazie a Persson che – trasferendosi a casa sua – non l’abbandona mai, mettendo in gioco se stessa e la loro relazione anche nell’inquadratura, ci addentriamo nel qui e ora di Masih, nella sua vita stracolma di incontri, contatti a distanza e non, di angoscia per quelle donne lontane, per la sua famiglia minacciata, per suo fratello arrestato, per tutte le storie di dissenzienti perseguitati che vorrebbe raccontare nella loro irripetibile unicità nella sua trasmissione televisiva Tablet (ospitata da The Voice of America), senza trascurane neanche una. Ma anche scopriamo il suo rilassarsi in giardino, coltivando rose e girasoli, il suo cantare in metropolitana perché a New York nessuno ti arresta o ti taccia di pazzia, il suo danzare sotto la pioggia, quando da un’amica ha ricevuto l’empowerment per continuare oltre la disperazione.

Sono i suoi modi per ammorbidire l’eccesso di tensione, la sovraesposizione mediatica col suo indotto anche di odio, per innaffiare la sua fragilità di essere umano, senza la quale non potrebbe essere l’attivista che è. (Per favore, non parlare, le dice Persson a un certo punto per incanalare quella energia debordante; spegni la telecamera, che ho bisogno di essere abbracciata, le chiederà Masih). Quanto alla paura, sua madre le aveva insegnato a conoscerla, a tenere gli occhi spalancati anche nel buio pesto del bagno in cortile – nasce nel ’77, due anni prima della rivoluzione, che poi devia nel regime islamico, a Ghomi Kola, nel nord dell’Iran. Questo coraggio, unito al desiderio di avere le stesse opportunità dei maschi, la porta a una precoce consapevolezza di sé e dell’ingiustizia di genere, sin da quando induce il fratello a fare la sua parte del lavoro domestico. Quindi una serie di azioni di spietata presa di distanza dal sistema: l’espulsione dall’università, la maternità fuori dal matrimonio, il divorzio, il lasciare l’Iran.

È la costruzione di questa soggettività capace di autodeterminarsi che la spinge oggi a supportare tutte le forme di autonarrazione visuale che vengano dal suo Paese d’origine, a insegnare come utilizzare una telecamera come strumento di denuncia e di emancipazione.

Quanto alla risonanza della sua azione nel mondo, l’amica regista del documentario la segue in Europa, dove cerca di mobilitare i governi stranieri a prendere posizione contro il potere della Repubblica Islamica, al tempo stesso facendosi un esame di coscienza circa la reale salute delle loro democrazie.

E se, dopo My stolen revolution, il suo ultimo lavoro, Persson – racconta – aveva perso la speranza nel coinvolgimento del mondo rispetto alla situazione iraniana, poi la temerarietà dei video inviati dalle donne a Masih l’ha spinta a Be my voice, a un flusso senza fine di energie di linguaggi e di formati (footage televisivo, repertori, homemovie), a un ritmo incalzante e danzante, doloroso e vitalissimo affidarsi di voci l’una all’altra, tela indivisibile di traiettorie individuali e collettive. Di unicità e rispecchiamento. Che riesce a confrontarsi anche con le forze più crudeli e annientanti (a film quasi finito il regime ordina l’esecuzione di 1500 persone, i cui volti formano un mosaico di immagini, che non smettono di irradiare la loro immane forza spirituale a chi resta). «Se ogni persona si levasse il cappello, se ogni persona fosse se stessa, tutte insieme trionferebbero».