Dopo una settimana di rimostranze verbali e minacce rivolte a Pechino, il governo indiano lunedì scorso ha esteso lo scontro con la Cina al campo commerciale, imponendo il blocco nazionale di 59 app cinesi, tra cui la popolarissima piattaforma video Tik Tok.

Chi simpatizza per il governo presieduto da Narendra Modi, adattando lo slogan surgical strike coniato nel 2016 per il bombardamento di – presunte – basi terroristiche in territorio pachistano, già parla di digital strike: da due giorni gli oltre 450 milioni di utenti internet via mobile indiani non possono né scaricare né accedere a un ventaglio di applicazioni che va da Tik Tok a Shareit (scambio file), da UC Browser a Helo e Likee, entrambi spin-off della popolare app di condivisione di brevi video.

La misura, secondo il ministero delle telecomunicazioni, è stata presa per salvaguardare «l’integrità e la sovranità» nazionali, in risposta a «numerose lamentele» pervenute da utenti indiani circa la sicurezza e la privacy dei dati personali raccolti automaticamente dalle app cinesi. Nella giornata di ieri l’ambasciata cinese in India ha diffuso un comunicato di protesta, accusando il governo indiano, tra le altre, di «violare le regole dell’Organizzazione mondiale del Commercio» ricorrendo a misure di «discriminazione selettiva» basate su motivazioni «ambigue e improbabili».

Formalmente l’iniziativa di New Delhi rispecchia le preoccupazioni globali circa i legami tra le compagnie digitali cinesi e il governo di Pechino, accusando le prime di raccogliere sistematicamente informazioni sensibili di utenti stranieri mettendole a disposizione dell’esecutivo. Di fatto, il governo Modi implicitamente esclude uno scontro militare dagli esiti certamente disastrosi per l’India, optando invece per un’offensiva digitale mirata al portafogli cinese, nel solco della «guerra dei dazi» dichiarata dagli Stati uniti l’anno scorso.

L’arma scelta da Modi per sferrare il primo attacco commerciale post valle di Galwan appare però decisamente spuntata. Tra le 59 app finite nella lista nera di New Delhi vale la pena concentrarsi solo su Tik Tok, sviluppata dalla cinese Bytedance, start-up valutata 75 miliardi di dollari.

Secondo SensorTower, portale specializzato in analisi della «global app economy», Tik Tok a oggi è stata installata oltre due miliardi di volte in tutto il mondo, di cui 611 milioni di volte in India. E sempre in India, dice TechCrunch, l’app viene regolarmente usata da almeno 200 milioni di utenti, fissa in vetta alla top 10 delle applicazioni scaricate sugli smartphone indiani.

Tik Tok, disponibile in India da nemmeno due anni, ha sbaragliato la concorrenza grazie a una strategia mirata a intercettare i moltissimi first time internet users dell’India rurale, in larga maggioranza non parlanti inglese. Come sottolineato nel comunicato diramato da Tik Tok India all’indomani del blocco – in cui dice di star collaborando con le autorità – l’app ha «democraticizzato internet, essendo disponibile in 14 lingue indiane, con centinaia di milioni di utenti tra artisti, story-teller, educatori e performer che si affidano all’applicazione per guadagnarsi da vivere».

Pur a fronte di una diffusione così capillare, però, i profitti generati sul mercato indiano da Bytedance, quasi esclusivamente grazie a inserzioni pubblicitarie, sono assolutamente risibili: 490mila dollari (dati ottobre 2019).

Il digital strike indiano di certo rallenterà l’ascesa cinese nel mercato delle app, favorendo gli sparuti competitor indiani come Chingari, che nelle ultime 48 ore ha quintuplicato gli utenti, assestandosi a 2,5 milioni di download complessivi. Ma difficilmente modificherà gli equilibri di una bilancia commerciale che per New Delhi è disastrosa: 57 miliardi di dollari di deficit su un interscambio di 92,5 miliardi lo scorso anno.

Ci limitiamo a un solo esempio, rimanendo in tema app e smartphone. Secondo la società di analisi di mercato Counterpoint, ad oggi il 30% degli smartphone venduti in India è targato Xiaomi (cinese). Seguono Vivo (17, cinese), Samsung (16, sudcoreana), Realme (14, cinese), Oppo (12, cinese, sponsor della nazionale di cricket fino all’anno scorso) e altri (11). Colpire Pechino è più facile a dirsi che a farsi.