Al tempo del coronavirus lo svuotamento delle sovraffollate carceri turche, riempite a dismisura con la campagna di epurazioni seguita al fallito golpe del luglio 2016, arriva in parlamento.

Mentre il ministero della Giustizia, lunedì, ha annunciato fiero la produzione di un milione e mezzo di mascherine in un mese dentro sei diverse carceri, frutto del lavoro dei detenuti, il governo ha proposto il rilascio di decine di migliaia di prigionieri.

Da mettere agli arresti domiciliari a tempo determinato, come accaduto nel vicino Iran, nella consapevolezza che celle piccole e sovraffollate, spesso con scarse condizioni igieniche, siano uno dei migliori veicoli di contagio.

Sono 300mila i detenuti in Turchia (su una popolazione totale di 80 milioni) in 375 carceri, la cui capienza massima non supera le 120mila unità. A presentare la proposta di legge di 70 articoli è stato il partito del presidente Erdogan, l’Akp, due settimane fa. Ieri è arrivata in parlamento.

L’idea è un rilascio temporaneo, fino a quando l’epidemia sarà più o meno domata, di 90mila detenuti: prigionieri in carceri di minima sicurezza, sopra i 65 anni, malati, donne incinte o con figli con meno di sei anni. Il numero potrebbe aumentare considerando chi ha scontato almeno metà della pena e che potrebbe essere rilasciato con la condizionale fino a tre anni.

Chi resta fuori? I condannati per stupro, omicidio di primo grado, droga e – soprattutto – terrorismo. Una categoria che in Turchia ha le maglie larghe. Sono giornalisti, deputati del partito di sinistra pro-curdo Hdp, attivisti, scrittori, avvocati.

A loro è rivolto l’appello di 27 organizzazioni per i diritti umani turche e internazionali: Amnesty, Articolo 21, l’European Center for Press and Media Freedom e tante altre ne chiedono il rilascio immediato e senza condizioni.

«Queste persone non dovrebbero essere detenute – si legge nel comunicato – Giornalisti, difensori dei diritti umani e persone imprigionate per aver semplicemente esercitato i propri diritti resteranno dietro le sbarre. E le autorità turche dovrebbero riesaminare i casi dei prigionieri in detenzione preventiva».

Uno strumento abusato, routine per migliaia di prigionieri politici, a cui si aggiungono i numeri raccolti da Bianet, agenzia indipendente turca: sono tuttora in carcere 102 giornalisti, metà di loro per terrorismo o propaganda del terrorismo, condannati a pene che sommate arrivano a 1.103 anni. E la caccia al reporter continua: sarebbero sette i giornalisti fermati per aver coperto l’emergenza sanitaria.

I primi casi sono stati registrati il 12 marzo, fino all’ultimo bilancio di ieri: 13.531 positivi, 725 ricoveri in terapia intensiva, 214 decessi. Lo scorso fine settimana le autorità hanno adottato nuove misure, tra cui la sospensione dei voli internazionali e il divieto di ingresso agli stranieri fino a fine aprile, il limite ai voli interni, la riduzione dei servizi taxi e autobus nelle principali città.

In precedenza erano stati chiusi bar, ristoranti, teatri, aree gioco per bambini, parchi e scuole e 41 tra quartieri e cittadine sono stati messi in quarantena.

Sul piatto Ankara ha messo un pacchetto di aiuti a dipendenti pubblici e privati da 15,4 miliardi di dollari, ma non basta in un paese alle prese da quasi un anno con una dura crisi economica, accompagnata da svalutazione della lira e inflazione-boom.

Per questo lunedì Erdogan ha lanciato una «campagna nazionale di solidarietà», a partire da se stesso: «Dono sette mesi del mio stipendio – ha detto in un messaggio alla nazione – Il nostro obiettivo è aiutare chi economicamente lotta, in particolare i lavoratori a giornata». Ministri e parlamentari doneranno quasi 800mila dollari, ora tocca agli altri cittadini, questo il messaggio.

Una mossa criticata dalle opposizioni che lamentano l’utilizzo del gettito fiscale per pagare i mega progetti infrastrutturali – tutti affidati a compagnie collegate alla famiglia Erdogan, per sangue o amicizie – che hanno spinto il paese alla crisi.