Atteso per la fine dell’estate, l’annuncio del ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo ha bruciato i tempi, andando a coincidere con la data del peggior omicidio di massa della storia moderna dell’Egitto: il 14 agosto del 2013 a Piazza Rabi’a al-‘Adawiyya vennero trucidati un migliaio di attivisti accampatisi a difesa del governo dei Fratelli Musulmani deposto dal colpo di stato guidato dal generale al-Sisi.

Il massacro è il via libera a un apparato repressivo la cui azione diventerà la norma, e nei cui ingranaggi sparisce ogni tipo di oppositore, reale o presunto. Oggi il regime egiziano è perfettamente allineato tanto con Mosca quanto con Washington, e viene foraggiato di liquidità dai sauditi.

Incarcerati come terroristi in Egitto, deragliati lungo l’involuzione democratica turca, accerchiati in Qatar, i Fratelli Musulmani restano egemoni fra Misurata e Tripoli – ovvero in quella porzione di Libia in cui la presenza italiana è più marcata – e fronteggia le mire di reconquista del generalissimo Haftar, armato dal suo omologo egiziano.

In queste ore il governo italiano ha sostenuto che la lettera di missione che porta l’ambasciatore Cantini al Cairo non costituisce una resa. Non si tratterebbe di un ulteriore sacrificio di Giulio, questa volta sull’altare della ragion di stato: rappresenterebbe invece uno strumento aggiuntivo che nella presente congiuntura si rivelerà importante.

L’origine di tanta fiducia, che si giustificherebbe se ci trovassimo a un passo da una svolta, non ci è dato conoscerla. Nel frattempo le rivelazioni del New York Times sulle informazioni passate dall’amministrazione Obama al governo italiano hanno ridato fiato agli sceneggiatori di complotti internazionali, propiziando letture di messaggi in codice e avvertimenti.

È bene chiarire che la lunga ricostruzione con cui Declan Walsh rilegge la tragica vicenda nel quadro della politica internazionale non è il prodotto di instant journalism, ma frutto di una ricostruzione minuziosa che ha richiesto parecchio tempo, e va semmai inquadrata nel duro scontro fra la testata e l’amministrazione Trump.

Viene da pensare che un governo che si dichiara fiducioso in un superamento dello stallo nella ricerca della verità avrebbe ben più da guadagnare dal chiedere alla Casa Bianca prove circostanziate e fungibili circa le responsabilità degli apparati egiziani, che non dallo smentire ogni circostanza riportata dalla stampa americana.

Oggi, come allora, non è utile aggiungere speculazione a speculazione, teorema a teorema: occorre prendere nota e atto delle molte circostanze, delle menzogne e dei silenzi (quello di Cambridge resta imbarazzante) e semplicemente chiedersi quale strumento sia più efficace al perseguimento della verità e della giustizia.

Ricordiamo come fu l’allora ministro degli esteri Gentiloni, nel 2014, ad insistere sulla riscoperta e la centralità dell’interesse nazionale nel definire la condotta dell’Italia «dalla Russia alla Libia».

Ora, a meno di non voler ragionare come l’Egitto di al-Sisi, l’invocazione dell’interesse nazionale non può fungere da talismano: anche nella sua nozione più riduttiva, legata alla sicurezza e alla sopravvivenza, l’interesse nazionale non è un corpo mistico consegnato alla logica monocorde di una ragion di stato in cui i cosa, i come, i dove e i quando si dissolvono indistintamente.

Il consolidamento del regime di al-Sisi è accompagnato da circa 1.400 desaparecidos, decine di esecuzioni extra-giudiziali, decine di migliaia di arresti.

Quei giorni di agosto 2013 che non vogliamo ricordare videro abortire l’ipotesi di conciliazione fra islamismo politico e democrazia, di fatto consegnando la promozione del primo al conservatorismo wahabita in una regione ben più ampia che il solo Egitto.

La domanda da porsi oggi – tanto più a seguito della notizia di «prove incontrovertibili» riportata dal Nyt – è se siamo certi che davanti a un regime che di fronte all’evidenza sulla natura del crimine, e pur percorso da convulsioni violente, è talmente ossessionato dalla propria reputazione da sfidare le relazioni con un alleato vicino per non compromettere un solo suo agente, attenersi al principio del negoziato e dell’aggiustamento serva il miglior interesse nazionale di lungo periodo.

Peraltro, non c’è certamente solo Egitto nel futuro della Libia e del Nordafrica. Un governo come quello italiano non può pensare di passarne il test se – mentre spedisce al Cairo l’ambasciatore – non dà segni visibili di pressione laddove il regime egiziano è più sensibile.

Quale modo migliore per ricordare Giulio che tutelare la sfera della ricerca e del dibattito pubblico, iniziando dal respingere le indebite interferenze egiziane, come chiesto anche pubblicamente dalla sezione italiana di Amnesty International?

Ci troviamo nella situazione surreale, per non dire grottesca, in cui la famiglia usa parole come resa e lutto, mentre il ministro degli esteri Alfano annuncia giornate commemorative e l’intestazione a Giulio degli auditorium degli istituti italiani di cultura e dell’università italo-egiziana.

Del resto, che si trattasse di mettere una pietra sopra mercanteggiando alla grande ce lo ricordano i suoi omologhi egiziani che parlano della grande attesa per il ritorno del turismo.