È passato alla storia come il macellaio dei Balcani, Ante Pavelic, Poglavnik (Duce) del supercattolico stato fantoccio croato, inventato, nel 1941 subito dopo l’occupazione nazifascista della Jugoslavia. L’8 maggio del 1941, accompagnato da ministri e religiosi (fra cui il Vicario Generale dell’Arcivescovo Stepinac, quello che poi fu beatificato da Papa Woityla) Pavelic venne in Italia e, «circondato dai suoi banditi» – come annoterà Ciano nel suo Diario – venne festosamente e solennemente ricevuto in udienza privata da Pio XII che, congedandolo, gli fece i migliori auguri per «la sua opera futura».

E LA SUA OPERA ci fu: in pochi anni realizzò uno dei più terribili genocidi della storia, sterminando quasi un milione di civili in un territorio abitato da pochi milioni di persone. Furono assassinati in massa i serbi ortodossi, gli ebrei, i rom e i comunisti. Si calcola che più di 700 mila serbi furono massacrati: si trattava di civili, in massima parte donne e bambini. Furono torturati e uccisi nelle maniere più atroci: sgozzati, sbudellati, sotterrati vivi e crocifissi. «Un terzo dei serbi deve convertirsi, un terzo andarsene e gli altri morire» era il programma di Pavelic.

GLI USTASCIA crearono una rete di campi di sterminio locali e solo nel famigerato campo di Jasenovac furono sterminate in questo modo atroce centinaia di migliaia di persone. Persino i fascisti italiani e le SS furono scandalizzati dai massacri commessi dagli ustascia, tanto che lo stesso Ribbentrop incaricò l’ambasciatore tedesco a Zagabria di esprimere la profonda costernazione del governo del Reich a causa «degli orribili eccessi degli Ustascia, elementi criminali».

CHE FINE ha poi fatto Pavelic? È morto serenamente a Madrid nel 1959, dopo essere stato consigliere per la sicurezza nell’Argentina di Peron, con la benedizione di quei preti che avevano sempre visto in lui un «convertitore di ortodossi», come l’arcivescovo di Sarajevo Ivan Saric o il padre francescano Simic che, nel 1941, aveva pubblicamente dichiarato: «Ammazzare tutti i serbi nel più breve tempo possibile. Questo è il nostro programma».

1941, Ante Pavelic alla stazione Ostiense con Mussolini

UN TREMENDO passato dunque, per la Croazia, che nel momento della guerra per la dissoluzione della Jugoslavia nel 1991-94 è sembrata riproporre quel suo tratto di nazionalismo xenofobo, di clericalismo fondamentalista e di particolare violenza antiserba, basti pensare alle parole e agli atteggiamenti del suo primo presidente Tudjman.

MA IN QUESTA CORNICE Fiume resta riottosa e, come l’Istria, vota a sinistra, mentre la Croazia continua a cercare di far dimenticare uno solo dei suoi pezzi di storia, quello «comunista». Così, nell’anno 2020 non sembra purtroppo innaturale veder riapparire anche qualche nostalgico dell’ignobile regime di Pavelic. Un gruppetto di sedicenti ustascia si è infatti presentato domenica scorsa sotto il grattacielo di Fiume/Rijeka, quello sulla cui cima è stata issata la scorsa settimana una stella rossa. Con l’intenzione di «buttarla giù» ma tutto si è risolto con una stella di cartone incendiata a livello marciapiede e il grido «torneremo!» tra slogan e insulti contro il sindaco Obersnel.

GIÀ C’ERA STATA una stella su quel grattacielo, durante gli anni della Jugoslavia titina ed il programma di Fiume/Rijeka «capitale della cultura 2020» prevedeva il temporaneo ripristino suo e di altri simboli che potessero ricordare la storia travagliata della città. Commissionata all’artista fiumano di origini serbe Nemanja Cvijanovic, la stella è formata da 2.800 schegge di vetro rosso e, ancora prima di venire istallata, ha sollevato le ire della destra. Anche le associazioni degli esuli istriani, naturalmente, si sono fatte sentire e una nota di biasimo è arrivata al sindaco di Fiume addirittura dalla Ministra della Cultura croata che, evidentemente, aveva autorizzato il programma per la Città della Cultura 2020 senza leggerlo. Qualcuno giorni fa ha pensato di spaccare i vetri della clinica dove il vicesindaco di Fiume esercita la sua professione di gastroenterologo.

MOLTO DIRETTA la sua reazione: «Non dobbiamo permettere che esponenti dell’estrema destra croata ci dettino le cose che dobbiamo fare o meno. I 2.800 frammenti di vetro di colore rosso indicano il sacrificio di altrettanti partigiani rimasti uccisi durante i combattimenti per liberare Fiume dalle truppe di occupazione tedesche sul finire della seconda guerra mondiale. Non ci fossero stati i partigiani di Tito, Fiume, l’Istria, Zara, Lagosta e buona parte della Dalmazia sarebbero rimaste in Italia. Siamo oggi un paese democratico e questo vuol dire innanzitutto antifascista».